Negli anni di permanenza in missione noto che gli
avvenimenti speciali accadono la mattina
presto quasi a scongiurare che si confondano con i fatti della giornata e perdano il loro prezioso
valore. Tutti sanno che viaggio spesso
e mi alzo quando ancora regna il buio della notte. Chi mi vuole incontrare
prima della partenza deve camminare di notte e attendere che apra la porta
della canonica per salutare il nuovo giorno. Alle cinque smontano le guardie
notturne e io sono da loro per congedarle.
Una mattina invernale nel salutare quegli uomini stanchi e intirizziti
dal freddo, gli stessi mi avvisano che sotto il mango poco lontano
dall’abitazione, aspettano da tempo Olgisa e Nziko. Questi sono bagnati non
dalla pioggia ma dalla rugiada notturna scesa abbondante per sostituire l’acqua,
assente da molti mesi. E’ una rugiada
benedetta da Dio per tenere sempre verdi i grossi alberi di mango e di cajù.
Nel cielo la luna è piccola
e dà spazio alla moltitudine di stelle che ricamano con mani di fata l’immenso
spazio. L’aurora inizia a sostituire il chiarore della luna e delle stelle. Solo
un Dio grande e immensamente buono può inventare simili bellezze. Questa
mattina lo splendore e l’immensità del
firmamento custodiscono altra bellezza, altra delicatezza che l’animo umano possiede. E’ la
luce e la delicatezza dell’amore che si fa attenzione e ricompensa.
Nziko è un giovane sui vent’anni, di media statura,
robusto, di bell’aspetto, non eccessivamente nero ma castano scuro. Olgisa Ha
un comportamento signorile, non alto, sorridente con lo sguardo rivolto in
basso come è consuetudine per le donne makwa, Non interviene nella discussione
eccetto quando è sollecitata dal marito. Non interviene per rispetto del marito
e del missionario ma anche perché non conosce il portoghese. Dal suo comportamento
fa capire che conserva nel cuore
qualcosa di grande mista a una felicità che sprizza da tutti i pori. Sulle
spalle porta il solito fagotto con
dentro l’ultima creatura che dorme ignara di tutto e sicura della protezione
materna. Il primogenito ha quattro anni e sta accanto al padre, stringendosi forte alle
sue gambe. La famiglia viene da Muripa, un villaggio distante venti
chilometri dal centro. Hanno camminato per diverse ore perché quelle strade si percorrono solo a piedi o in bicicletta. Loro
non hanno soldi per comprare il mezzo di trasporto e si servono del cavallo di
san Francesco. Non possiedono proprio niente. La loro vita è ricca solo di
amore, di rispetto, di fedeltà e di attenzione reciproca. Doti veramente rare
in un
ambiente che esce dal turbine della guerra. Non dico che non esistono
amore, attenzione, rispetto, fedeltà ma
che non si trovano ovunque. La guerra ha
costruito un ambiente di diffidenza, di odio, di malavita. In quel periodo
anche in famiglia ognuno doveva pensare a salvare prima se stesso, poi i
congiunti.
I due al mio arrivo si alzano in piedi e mi salutano,
lui in portoghese, lei in Makwa col saluto tipico del luogo: “ Moxelelya”,
“koxelelya kahiki nywo”, rispondo io, (
ha riposato bene? Io sì non so lei). Insieme mi rivolgono il saluto riverenziale
riservato alle persone di grande rispetto o a quelle vecchie: “Moscamolo”, “ah-
ah”, rispondo io, (come sta?, sto bene). Senza attendere altri discorsi chiedo
dove sono diretti e se hanno molti
bagagli. La mia domanda è giustificata perché è norma che la presenza mattutina
di persone provenienti dai villaggi lontani è sempre per chiedere passaggi. Alle
volte è l’intera famiglia a muoversi
con fagotti e fagottini che da soli riempiono la macchina. Questa volta mi sono
sbagliato, molto sbagliato così da rimanere confuso di tanta delicatezza che i
due mi rivolgono. Ricordo di aver riscontrato in precedenza solo qualche altra
volta una simile sensibilità.
“Padre, non chiediamo nulla per noi, da qui
rientreremo a casa”, dice Nziko con una espressione soddisfatta, quasi contento
perché il padre questa volta non ha indovinato il motivo della loro presenza.
“Le chiediamo di ascoltarci per un solo
minuto. Questo è un regalo per lei”. Mentre parla mi porge di lontano una
gallina e la signora alcune uova, e riprende:
“La vogliamo ringraziare perché l’anno scorso ha battezzato il nostro figlio e ha benedetto
le nostre nozze. Attendevamo quel giorno
da molto tempo. Il catechista non ci ammetteva mai ai sacramenti perché mancavamo
spesso alle lezioni. Lei ci ha accettato
ugualmente, considerando la nostra assidua presenza alle celebrazioni e
perché abbiamo imparato a casa le preghiere. Le vogliamo dire che adesso
conosciamo tutte le preghiere e alle volte recitiamo insieme la corona. La
creatura accovacciata sulle spalle di mia moglie è nata dopo il matrimonio religioso. Noi non abbiamo dimenticato il regalo che lei ci ha donato e oggi siamo venuti per ringraziarla:
grazie, Padre.
Potevamo
venire prima ma non avevamo nulla da
offrirle e per questo abbiamo preferito attendere il momento giusto, inoltre
mia moglie non poteva camminare molto”. La donna slega il fagotto che porta sulle
spalle annodato sulla pancia. Mi mostra
una creatura che dorme beatamente, dolce come la luna che sta per andarsene.
Finalmente Olgisa mi guarda nel volto, mostrandomi lo splendore degli occhi
incastonati in un viso ampio e lucente. Come
in un coro i due ripetono: “Koshukuru” (grazie). Io ringrazio loro e ricambio
il dono con del sale, una bottiglietta
di olio e una busta di riso. Difficilmente il sale si può comprare, l’olio non si trova affatto
nella mensa della gente e il riso è per i giorni di festa. Ricambiare il dono, secondo le proprie
possibilità, è un gesto che indica apprezzamento dell’offerta ricevuta.
In un ambiente dove esistono solo doveri, dove per
necessità o “per virtù” la ruberia è di
casa, incontrare una simile finezza convalida e incoraggia l’azione missionaria
intrapresa e riempie di gioia il cuore.