Anche in Mozambico è presente il traffico di organi
umani esteso in tutto il paese. Si dice che
in questo traffico sia implicato anche qualche elemento governativo.
Questi strani commercianti hanno strutture proprie vicino agli aeroporti e in
città marittime. Sono conosciuti luoghi e persone ma nessuno sa o parla. Sono
facile preda gli adolescenti e i giovani, uomo o donna non importa. L’ambiente
è favorevole agli spacciatori a causa della miseria e della facilità con la
quale i genitori cedono i figli a sconosciuti
con la promessa di dare loro una vita migliore. Il desiderio di
una vita nuova per i figli non lascia
immaginare ai genitori che ci sia qualcos’ altro oltre le parole. Con questi signori avranno cibo e vestiti a volontà. In seguito i figli non si vedranno più. Alla
preda si da subito qualche soldo e ai più giovani si mette nelle mani una manciata di caramelle. Può capitare anche che qualche padre,
ricordando di avere dei figli lontano dalla sua ultima residenza e, volendo
vendicarsi della ex convivente oppure semplicemente per avidità di soldi, vada
alla ricerca di uno o più figli e li consegni a queste organizzazioni. Naturalmente
neppure il genitore conosce la fine dei figli. Atteggiamenti , questi, fuori di
ogni sensibilità umana. Se poi osserviamo, come dice il vescovo locale, che neanche gli animali sono disposti a cedere
la propria prole, immaginiamo, se ne siamo capaci, fin dove può arrivare la
distorsione della mente umana.
Questa organizzazione criminale è presente a Nacala. Nelle periferie della città costruisce un complesso chiuso con
accesso rigorosamente interdetto alle visite e ai “non addetti ai lavori”. Un
secondo accesso dà al mare. I ragazzi e i giovani adescati finiscono lì e
nessuno sa più nulla. C’è stato un periodo durante il quale alcuni missionari tentarono di denunciare all’opinione pubblica
internazionale il movimento ma durò poco. La cosa era già conosciuta a livelli
internazionali, all’ONU e altrove ma nulla si muoveva. Una missionaria laica
che si occupava del traffico è stata uccisa a Nampula.
In questo quadro così losco s’ inserisce la storia
della nostra adolescente alla quale diamo il nome di Jenìn. Questa è una dei
figli di genitori separati e risposati molte volte. Lei conosce la madre, il
papà non lo ricorda. Un giorno la madre le presenta un uomo, indicandolo come suo babbo ma non ha più nessun altro contatto col genitore. Ora Jenìn non abita con la madre. Ancora molto
piccola va a vivere con la nonna materna insieme al
fratello. In seguito si spostano da un
conoscente all’altro, cercando in ognuno ciò che non può
dare loro: la sicurezza di un casolare, l’amore dei genitori mancati e una vita
serena. Il padre conosce bene la situazione dei due figli e segue di lontano
tutti i loro movimenti. I due raggiungono l’età approssimativa di dodici - tredici
anni e si muovono con più facilità, prestando i loro servizi presso le famiglie.
Un giorno il papà, accompagnato da alcuni signori
bianchi ben prestanti alla guida di un pulmino, va alla ricerca dei figli. Li
incontra, li saluta e li prega di seguire gli amici, suoi benefattori. Il papà
riceve la ricompensa e scompare. I
ragazzi, ignari dei loschi progetti del genitore, entrano nel pulmino e subito
ricevono caramelle e tante promesse. Poco più tardi si ritrovano nella
periferia di Nacala in grandi locali. Qui incontrano altri ragazzi e giovani
con i quali subito fanno amicizia. Tutti raccontano le storie personali
più o meno uguali. Sono trattati bene, mangiano, giocano ma non capiscono
perché sono chiusi e nessuno li visita. Non possono incontrare nessuno ed è
vietato uscire dal recinto. Notano anche che alcuni dei compagni alle volte
scompaiono. Jenìn non vede più il fratello. Jenìn e alcune amiche chiedono di
ritornare a casa e non trovano risposta, vogliono uscire per incontrare amici e parenti
ma viene loro vietato severamente, presentando scuse che non soddisfano
nessuno.
Jenìn, abituata a giocare e a girare all’aria
aperta, non resiste a un simile trattamento e progetta di fuggire. Non sa come
fare né dove andare. Per un certo periodo osserva tutto in silenzio, ascolta le
conversazioni degli altri sventurati, degli assistenti e delle guardie. Scopre dei
movimenti che si ripetono quotidianamente. Capisce che non è possibile
scavalcare i muri né fuggire da nessuna porta perché all’esterno c’è la ronda che
vigila giorno e notte. La ragazza non ha fretta ma vuole accelerare i tempi per
paura che scompaia come la sua amica conosciuta lì dentro. Con lei avevano
pensato a una fuga ma l’amica non c’è più e lei vuole attuare il piano da sola. Mentre è seduta per terra in un angolo del
cortile, sola e pensierosa, con la testa fra le mani, si avvicina una compagna,
per dire il vero non molto simpatica. La ragazza desidera parlare con lei. “Scusa”,
dice la ragazza, “io sono di Nampula, sono stata portata qui con inganno,
promettendomi vestiti e soldi. Non ho
avuto nulla, anzi sono sorvegliata anche di notte. Mi chiamo Gracinta. Sono qui
da venti giorni e sono stanca. Voglio fuggire, ma non so come fare”.
Si sa che la necessità e lo stato di sopravivenza
acuiscono l’intelligenza, raffinano la scaltrezza e aumentano l’innato
senso psicologico anche nei bambini. I Makwa possiedono fin dall’infanzia un
altissimo senso psicologico per cui ci si capisce benissimo non solo con le
parole ma dai movimenti, dallo sguardo e, specialmente dal tono della voce.
Tutto concorre a una intesa immediata anche fra sconosciuti. E’ quanto avviene fra
le due prigioniere. Quella compagna
antipatica si trasforma in amica e
complice. Jenìn rivela subito le sue
intenzioni: “Da alcuni giorni medito
proprio questo, in due sarà più facile. Ascolta il mio piano e poi mi dirai:
Alle volte vedo una guardia che avevo incontrato nella zona dove vivevo, credo che lei possa
aiutarci. Ci facciamo accompagnare alla stazione dei pullman e poi ciascuna va
nella propria direzione. Ci stai? Dobbiamo parlare con la guardia quando non c’è nessuno in giro”.
“Bella idea”, risponde Gracinta, “io ho già parlato una volta con quella
guardia. Devo trovare l’occasione per parlargli un’altra volta”.
Tre giorni dopo le
due amiche si trovano ben nascoste nella macchina della guardia in direzione
della città. Tutti tremano per la paura
di un controllo. In questo caso i tre vengono eliminati senza pietà. La guardia
non le accompagna fino ai mezzi di trasporto pubblici, sarebbe troppo rischioso
per lui. Le lascia all’ingresso della città dove c’è molto traffico. Gracinta
entra subito in una macchina di passaggio diretta a Nampula, Jenin si dilegua
nella campagna e a piedi raggiunge la
zona di Sette di Aprile, un villaggio questo, a metà strada da Nacala a Memba.
Ancora non è vicino al suo villaggio natale tuttavia lei si sente a casa e si
può riposare sotto un albero. La gente
la vede ma nessuno pensa che in quella ragazza ci sia
qualcosa di particolare. Tutti sono abituati a simili scenari.
Jenìn dorme profondamente, quando si sveglia sente
fame. E’ una fame causata dalla stanchezza accumulata durante la fuga e dallo
stato di nervosismo represso nei giorni
di prigionia. Passa fra le bancarelle del mercato, osserva con avidità quel
cibo appetitoso ma non ha soldi per comprare.
Desidera portar via qualcosa però si sente osservata da tutti e desiste.
Vaga per la campagna, qualcuno le rivolge la parola e lei scappa. Ha paura di
chi si ricorda di lei. Osserva bene in ogni angolo alla ricerca della madre e
del fratello. Forse anche lui è riuscito a fuggire dalle mani di quegli
sconosciuti! L’istinto fa riconoscere
chi le vuole bene e di chi ci si può fidare, per questo osserva, cammina,
fugge. Ascolta molto, parla
pochissimo e, al momento propizio si
ferma e accetta ciò che le offrono. Il
cibo, il riposo, l’alloggio sono cose necessari ma in lei passano in secondo
ordine. La cosa più importante è vivere,
poi si sistemerà tutto. Assapora la vita più che mai. Ha rischiato di perderla,
ora è tutta sua, nelle sue mani e per nessuna cosa al mondo può rischiare di
sciuparla.
Arriva nella
zona di Geba e accetta l’ospitalità di
chi si dice parente (stessa tribù). Dopo alcuni giorni le troppe domande dei
conoscenti la mettono nuovamente in cammino. Vagando per la campagna si ritrova
nella zona di Nakeka. Qui riconosce una sua familiare. Questa le dà indicazioni
della madre e della famiglia. Dopo essersi riposata e aver mangiato a sazietà
si mette nuovamente in viaggio.
Nel frattempo si diffonde la voce della sua fuga
dalla casa del padrone che le aveva promesso ricchezze e benessere. Chi non
conosce la realtà dice che la ragazza non doveva fuggire perché viveva con un
padrone potente, mangiava a sazietà e non lavorava. Al contrario, chi conosce
qualcosa del traffico degli organi dice che Jenìn è molto coraggiosa, è
fortunata. Gli ultimi sono pronti a difenderla. Anche un missionario si mette
sulle tracce dell’ adolescente per proteggerla, ascoltarla e, magari, avere un
testimone prezioso nella lotta che sta conducendo contro il maledetto traffico.
Nello stesso tempo circola un’altra voce
crudele e spietata che non ha simili: a Nacala s’ incontrano in un quartiere
pezzi di corpi umani abbandonati in un prato non frequentato, vicino alla
strada. Qualcuno riconosce la testa o arti di giovani da tempo scomparsi.
Forse la nostra Jenìn non è al corrente di tutto questo oppure ne ha
sentito parlare come una notizia crudele.
Di fatto, lei è riuscita a scappare e ora cerca una casa sicura che possa
proteggerla e amarla. La premura e l’amore del missionario la incontrano e la
consegnano alla madre che vive a Napera, una comunità cristiana della sua
missione.
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