venerdì 20 ottobre 2017

Bambina coraggiosa


Anche in Mozambico è presente il traffico di organi umani esteso in tutto il paese. Si dice che  in questo traffico sia implicato anche qualche elemento governativo. Questi strani commercianti hanno strutture proprie vicino agli aeroporti e in città marittime. Sono conosciuti luoghi e persone ma nessuno sa o parla. Sono facile preda   gli adolescenti e i  giovani, uomo o donna non importa. L’ambiente è favorevole agli spacciatori a causa della miseria e della facilità con la quale i genitori cedono i figli  a sconosciuti  con la promessa di  dare loro una vita migliore. Il desiderio di una vita  nuova per i figli non lascia immaginare ai genitori che ci sia qualcos’ altro oltre le parole. Con  questi signori avranno cibo e vestiti  a volontà.  In seguito i figli non si vedranno più. Alla preda si da subito qualche soldo e ai più giovani si mette nelle mani  una manciata di caramelle.   Può capitare anche che qualche padre, ricordando di avere dei figli lontano dalla sua ultima residenza e, volendo vendicarsi della ex convivente oppure semplicemente per avidità di soldi, vada alla ricerca di uno o più figli e li consegni a queste organizzazioni. Naturalmente neppure il genitore conosce la fine dei figli. Atteggiamenti , questi, fuori di ogni sensibilità umana. Se poi osserviamo, come dice il vescovo locale,  che neanche gli animali sono disposti a cedere la propria prole, immaginiamo, se ne siamo capaci, fin dove può arrivare la distorsione della mente umana.
 Questa   organizzazione criminale  è presente a Nacala. Nelle periferie  della città costruisce un complesso chiuso con accesso rigorosamente interdetto alle visite e ai “non addetti ai lavori”. Un secondo accesso dà al mare. I ragazzi e i giovani adescati finiscono lì e nessuno sa più nulla. C’è stato un periodo durante il quale  alcuni missionari   tentarono di denunciare all’opinione pubblica internazionale il movimento ma durò poco. La cosa era già conosciuta a livelli internazionali, all’ONU e altrove ma nulla si muoveva. Una missionaria laica che si occupava del traffico è stata uccisa a Nampula.
In questo quadro così losco s’ inserisce la storia della nostra adolescente alla quale diamo il nome di Jenìn. Questa è una dei figli di genitori separati e risposati molte volte. Lei conosce la madre, il papà non lo ricorda. Un giorno la madre le presenta un uomo, indicandolo  come suo  babbo ma non ha più nessun altro contatto  col genitore.  Ora Jenìn non abita con la madre. Ancora molto piccola va   a vivere con la nonna materna insieme al fratello.  In seguito si spostano da un conoscente all’altro, cercando in ognuno   ciò che   non può dare loro: la sicurezza di un casolare, l’amore dei genitori mancati e una vita serena. Il padre conosce bene la situazione dei due figli e segue di lontano tutti i  loro movimenti. I due  raggiungono l’età approssimativa di dodici - tredici anni e si muovono con più facilità, prestando i loro servizi presso le famiglie.   
Un giorno il papà, accompagnato da alcuni signori bianchi ben prestanti alla guida di un pulmino, va alla ricerca dei figli. Li incontra, li saluta e li prega di seguire gli amici, suoi benefattori. Il papà riceve la ricompensa e scompare.   I ragazzi, ignari dei loschi progetti del  genitore, entrano nel pulmino e subito ricevono caramelle e tante promesse. Poco più tardi si ritrovano nella periferia di Nacala in grandi locali. Qui incontrano altri ragazzi e giovani con i quali subito fanno amicizia. Tutti raccontano le   storie personali più o meno uguali. Sono trattati bene, mangiano, giocano ma non capiscono perché sono chiusi e nessuno li visita. Non possono incontrare nessuno ed è vietato uscire dal recinto. Notano anche che alcuni dei compagni alle volte scompaiono. Jenìn non vede più il fratello. Jenìn e alcune amiche chiedono di ritornare a casa e non trovano risposta,  vogliono uscire per incontrare amici e parenti ma viene loro vietato severamente, presentando scuse che non soddisfano nessuno.
Jenìn, abituata a giocare e a girare all’aria aperta, non resiste a un simile trattamento e progetta di fuggire. Non sa come fare né dove andare. Per un certo periodo osserva tutto in silenzio, ascolta le conversazioni degli altri sventurati, degli assistenti e delle guardie. Scopre dei movimenti che si ripetono quotidianamente. Capisce che non è possibile scavalcare i muri né fuggire da nessuna  porta perché all’esterno c’è la ronda che vigila giorno e notte. La ragazza non ha fretta ma vuole accelerare i tempi per paura che scompaia come la sua amica conosciuta lì dentro. Con lei avevano pensato a una fuga ma l’amica non c’è più e lei vuole attuare il piano da sola.  Mentre è seduta per terra in un angolo del cortile, sola e pensierosa, con la testa fra le mani, si avvicina una compagna, per dire il vero non molto simpatica. La ragazza desidera parlare con lei. “Scusa”, dice la ragazza, “io sono di Nampula, sono stata portata qui con inganno, promettendomi vestiti e soldi.  Non ho avuto nulla, anzi sono sorvegliata anche di notte. Mi chiamo Gracinta. Sono qui da venti giorni e sono stanca. Voglio  fuggire, ma non so come fare”.
Si sa che la necessità e lo stato di sopravivenza acuiscono l’intelligenza,   raffinano la scaltrezza e aumentano l’innato senso psicologico anche nei bambini. I   Makwa possiedono fin dall’infanzia un altissimo senso psicologico per cui ci si capisce benissimo non solo con le parole ma dai movimenti, dallo sguardo e, specialmente dal tono della voce. Tutto concorre a una intesa immediata anche fra sconosciuti. E’ quanto avviene fra le due prigioniere.  Quella compagna antipatica si trasforma in  amica e complice. Jenìn rivela subito  le sue intenzioni:      “Da alcuni giorni medito proprio questo, in due sarà più facile. Ascolta il mio piano e poi mi dirai: Alle volte vedo una guardia che avevo incontrato  nella zona dove vivevo, credo che lei possa aiutarci. Ci facciamo accompagnare alla stazione dei pullman e poi ciascuna va nella propria direzione. Ci stai? Dobbiamo parlare con  la guardia quando non c’è nessuno in giro”. “Bella idea”, risponde Gracinta, “io ho già parlato una volta con quella guardia. Devo trovare l’occasione per parlargli un’altra volta”.   
Tre giorni  dopo  le due amiche si trovano ben nascoste nella macchina della guardia in direzione della città.  Tutti tremano per la paura di un controllo. In questo caso i tre vengono eliminati senza pietà. La guardia non le accompagna fino ai mezzi di trasporto pubblici, sarebbe troppo rischioso per lui. Le lascia all’ingresso della città dove c’è molto traffico. Gracinta entra subito in una macchina di passaggio diretta a Nampula, Jenin si dilegua nella campagna e a piedi  raggiunge la zona di Sette di Aprile, un villaggio questo, a metà strada da Nacala a Memba. Ancora non è vicino al suo villaggio natale tuttavia lei si sente a casa e si può riposare sotto  un albero. La gente la vede   ma nessuno pensa che in quella ragazza ci sia qualcosa di particolare. Tutti sono abituati a simili scenari.
Jenìn dorme profondamente, quando si sveglia sente fame. E’ una fame causata dalla stanchezza accumulata durante la fuga e dallo stato di nervosismo  represso nei giorni di prigionia. Passa fra le bancarelle del mercato, osserva con avidità quel cibo appetitoso ma non ha soldi per comprare.  Desidera portar via qualcosa   però si sente osservata da tutti e desiste. Vaga per la campagna, qualcuno le rivolge la parola e lei scappa. Ha paura di chi si ricorda di lei. Osserva bene in ogni angolo alla ricerca della madre e del fratello. Forse anche lui è riuscito a fuggire dalle mani di quegli sconosciuti!  L’istinto fa riconoscere chi le vuole bene e di chi ci si può fidare, per questo osserva, cammina, fugge.  Ascolta molto,   parla pochissimo e, al  momento propizio si ferma e accetta ciò che le offrono.  Il cibo, il riposo, l’alloggio sono   cose   necessari ma in lei passano in secondo ordine.  La cosa più importante è vivere, poi si sistemerà tutto. Assapora la vita più che mai. Ha rischiato di perderla, ora è tutta sua, nelle sue mani e per nessuna cosa al mondo può rischiare di sciuparla.
 Arriva nella zona di  Geba e accetta l’ospitalità di chi si dice parente (stessa tribù). Dopo alcuni giorni le troppe domande dei conoscenti la mettono nuovamente in cammino. Vagando per la campagna si ritrova nella zona di Nakeka. Qui riconosce una sua familiare. Questa le dà indicazioni della madre e della famiglia. Dopo essersi riposata e aver mangiato a sazietà si mette nuovamente in viaggio.
Nel frattempo si diffonde la voce della sua fuga dalla casa del padrone che le aveva promesso ricchezze e benessere. Chi non conosce la realtà dice che la ragazza non doveva fuggire perché viveva con un padrone potente, mangiava a sazietà e non lavorava. Al contrario, chi conosce qualcosa del traffico degli organi dice che Jenìn è molto coraggiosa, è fortunata. Gli ultimi sono pronti a difenderla. Anche un missionario si mette sulle tracce dell’ adolescente per proteggerla, ascoltarla e, magari, avere un testimone prezioso nella lotta che sta conducendo contro il maledetto traffico. Nello stesso tempo  circola un’altra voce crudele e spietata che non ha simili: a Nacala s’ incontrano in un quartiere pezzi di corpi umani abbandonati in un prato non frequentato, vicino alla strada. Qualcuno riconosce la testa o arti di giovani  da tempo scomparsi.

Forse la nostra Jenìn non  è al corrente di tutto questo oppure ne ha sentito parlare come  una notizia crudele. Di fatto, lei è riuscita a scappare e ora cerca una casa sicura che possa proteggerla e amarla. La premura e l’amore del missionario la incontrano e la consegnano alla madre che vive a Napera, una comunità cristiana della sua missione.  


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