Mario
Gianpiero e Michele
Sono un puro mozambicano nato a Iamwene, penso di avere 24 anni.
Non ricordo di essermi ammalato molte volte di malaria.
Questa è una malattia che afferra
rapidamente la vita. Quando mi prende
non penso ad altro che a morire, senza alcuna possibilità di salvarmi.
Mi offre mal di testa, febbre alta e la
stanchezza per tutto il corpo, lasciandomi gli organi che compongono il corpo
molto deboli, al limite di una totale paralisi, impedendomi qualunque
movimento.
Quando la malaria entra nel mio corpo mi
toglie l'appetito e mette nella bocca una indicibile amarezza. A volte ho fame ma, a causa dell'amarezza che sento
in bocca non posso mangiare né bere poiché tutto si trasforma in veleno. Nel momento del
recupero l'inappetenza è l'ultima cosa che scompare e dura alcuni giorni dopo
la guarigione.
Nel sonno appaiono molte cose strane che non hanno
nessun senso, tuttavia causano fastidi, agitazione e incertezza.
Si proiettano scene con persone,
mostri come fatti reali a tal punto che ci
si convince che tutto sia accaduto a causa del feticcio da parte di qualche
familiare o amico, oppure da un vicino di casa. Con questi si può entrare in
conflitto se non si ha la pazienza di recuperare bene prima di agire o di
ritenere come reale ciò che si immagina. Solo dopo un’attenta riflessione si
accetta che sia frutto della malattia.
Ci
sono, infatti, molte persone che si divertono a far soffrire gli altri fino ad ucciderli. Esistono anche
persone invidiose che provocano le malattie per impedire agli altri di
progredire economicamente o di avere un posto importante nella società.
La malaria mi domina del tutto, modificando il corpo e i sentimenti: Un momento sento
freddo da farmi tremare le singole ossa, subito dopo un intenso calore fa
salire la temperatura corporea in modo incredibile. Durante il corso della
malattia non ho voglia di parlare né di vedere nessuno, non è gradita nessuna visita. Se la malattia si prolunga,
il desiderio d’ isolamento dura anche nella fase del recupero. Inappetenza,
avversione a tutto, diffidenza, incostanza nei pensieri e nei desideri dominano
come nel corso della malattia. Accetto con buona volontà le medicine che mi
vengono somministrate sia quelle ospedaliere come quelle tradizionali senza
alcuna distinzione. Non capisco come accetti di buon grado le medicine pur
sentendo avversione e diffidenza nei confronti di tutti.
Ecco come si manifesta in me la
malaria.
A Mario auguriamo tanta serenità e
pace. Gianpiero e Michele
Col gruppo di ospiti, andiamo a Nacala per fare
rifornimenti di viveri: Io con la macchina e João con il camioncino. Due giovani
viaggiano con me, gli altri nel camioncino.
Io devo preparare il carico per João che mi avrebbe raggiunto nel
negozio di edilizia per caricare e ripartire subito. Faccio tutte le mie spese
in quel negozio e altrove ma João non si vede. Dopo oltre una ora arriva João
che mi comunica di aver portato dalle suore alcuni degli ospiti perché ammalati.
Infatti durante tutto il viaggio dicevano cose strane, uno parlava molto,
l'altro stava zitto e quando parlava si
lamentava. Le suore li hanno obbligati ad andare a letto e a prendere delle
aspirine contro la febbre.
Vado subito dalle reverende e incontro grande
allarme: Le suore vogliono trattenerli in osservazione, il gruppo desidera
rientrare a casa anche se con la febbre altissima. Le suore dicono che
non può essere la malaria perché gli ospiti sono arrivati in Mozambico da poco
tempo. Per loro si tratta di un virus influenzale.
Considerando che, in caso di malaria, la vicinanza di una persona
conosciuta è molto importante, decido di terminare le spese e portare tutti con me nella missione. La febbre ha reso Michele inattivo,
silenzioso, in faccia rosso incandescente.
Insieme alla moglie lo affido a João,
con me viaggia Gianpiero il quale, al
contrario di Michele, chiacchiera in continuazione. Lungo la strada il mio
nuovo compagno di viaggio mi da direttive sulla guida, mi indica dove passare,
quando accelerare e mi spiega come funziona la macchina. Quando ubbidisco mi
elogia, quando non seguo i suoi insegnamenti si adira.
A
metà strada la macchina inizia a non funzionare bene. Cammina sempre più piano,
si ferma e dopo varie insistenze riprende il suo cammino. La macchina fa come
vuole ed io non so che fare. Nel
rifornitore mi hanno messo gasolio sporco e la macchina manifesta continue anomalie. Mancano ancora
una cinquantina di chilometri e il fuoristrada si ferma spesso.
Gianpiero dà indicazioni precise: esige di
andare dritti, evitando le curve e
tenere una velocità costante perché in tal modo la sporcizia del serbatoio
rimane in basso e non entra nei tubi. Mi racconta di tutti i chilometri
percorsi sulle strade d'Italia e di come ha risolto molti problemi del suo pullman.
Non sempre riesco ad assecondarlo e s’innervosisce quando cado nelle buche.
"Così ti rovini la macchina, devi evitare le buche, devi camminare a
destra per non urtare chi viene in senso
contrario, sei un pericolo". S’innervosisce ancora di più quando non
riesco a rimanere serio e sul mio volto appare un largo sorriso. Come tecnico
non mi è servito molto, ma ha contribuito a distrarmi dalle preoccupazioni e ad
arrivare a destinazione prima di notte.
Appena arrivati in casa mando a letto i due con la febbre oltre i
quaranta gradi. Michele non reagisce a nessuno stimolo, si trascina con le
gambe e a stento riesce a sdraiarsi sul letto. Fa tenerezza vedere un gigante
abbattuto dalla puntura di un insetto che poco disturba se non nel momento in
cui, all’insaputa di tutti, beve una piccola goccia di sangue da chi ne ha da
vendere.
Gianpiero continua a parlare, a raccontare, a
progettare ad esigere rispetto e attenzione. Di tutto vuole essere sicuro. Ai
due somministro la prima dose di clorochina e aspirina, raccomandando di
rimanere calmi e sereni perché tutto sarebbe passato subito. L'intero gruppo è
preoccupato e non capisce la mia calma e la poca importanza che si dà ad una
malattia così repentina e alla febbre tanto alta. Tuttavia nessuno osa dubitare
sul mio operato. Michele è affidato alle cure della moglie aiutata dall’ amica
la quale rimane a letto alcuni giorni per inappetenza e un pò febbre. Gianpiero
è assistito da Vanna, "infermiera" robusta e in grado di mitigare le
chiacchiere dell'ammalato. Gli altri osservano e controllano ogni cosa a distanza.
Visito
Michele dal quale non ho nessun segno di risposta alle mie domande, la moglie è
serena, aspettando tempi migliori, sicura della mia competenza. Visito anche
Gianpiero e lo trovo preoccupato perché non capisce il motivo per cui abbiano
fatto quel bagno a forma di nuraghe, senza porte né finestre e lui non trovava
un’ apertura da dove uscire. Come rimanere sempre chiuso in un luogo del
genere? Chi lo libererà da una prigione
del genere? In compenso al rientro in Sardegna avrebbe comprato un camion di
coca cola e l'avrebbe bevuta tutta da solo. "A me non ne offrirai una
bottiglia?" protesta Vanna, ridendo. "A te ne darò una bottiglia, ma
il resto la berrò tutta io", chiarisce Gianpiero. Il Padre ha raccomandato
di rimanere al caldo e lui non osa affacciarsi alla porta né alla finestra,
passeggiando ininterrottamente nel corridoio. Visita il cuoco e a lui spiega
come cucinare il riso, il minestrone, il pesce e quanto lui vorrebbe mangiare.
Il cuoco ascolta, ride, ringrazia e lo manda a letto.
Passa
il periodo di degenza e le cose rientrano nella normalità: Gianpiero riprende
il suo stile serio e meditativo col sorriso delicato, impeccabile. Michele
riacquista il carattere di chiacchierone e trascinatore come un fiume in piena,
attento e generoso, sempre pronto a scherzare e ad aiutare gli altri.
I Quattro
Presso i Makwa si dice che le persone troppo
serie, o fuori della loro esperienza,
sono affette di malaria. I nostri ospiti viaggiavano molto lontano dalla realtà
quotidiana e quindi vengono considerati come persone perennemente
malariche. E' per questo giudizio
popolare che voglio includere in questo
opuscolo Muxiro, Avvocato, Ciccu e Maresciallo. Non finisco di ripetere che non
c'è nessun intento di offesa personale ma solo il desiderio di ricordarli con
simpatia e gratitudine.
Muxiro - Avvocato
Muxiro é alto, di bella presenza, sembra silenzioso
ma non lo é, parla garbatamente e di continuo senza mai sollevare la voce, come
dei bravi rappresentanti. Durante il viaggio da Nampula a Memba discute animosamente
con Avvocato, uno del gruppo, su argomenti filosofici, giuridici, storici
e ambientali, politici e occupazionali. I due possiedono una buona dialettica,
il primo con fare provocatorio, il secondo con serio intento di difendere la
propria cultura e posizione. Trascorrono così cinque ore di sano
intrattenimento che mi tolgono il sonno e accorciano la strada per arrivare a
casa.
Il
primo è un rappresentante di cosmetici e
così viene presentato nelle comunità dove andiamo, meravigliando tutti perché
nessuno capisce questo tipo di professione. Subito lo chiamiamo 'Muxiro'.
Questo è il nome dell'unica crema di bellezza che le donne dei villaggi
usano per difendersi dal sole e aumentare la loro avvenenza. La crema è confezionata dalle stesse
donne utilizzando radici di alberi. Se lui
sapesse del nomignolo che le donne gli hanno dato da subito, sicuramente
sarebbe contento.
Il
secondo viene chiamato 'Avvocato', pensando di far cosa gradita all’ospite che
si presenta sempre pronto a dare spiegazioni ad ogni problema.
Muxiro è amante della fotografia, è un bravo vignettista. Traduce tutto
in disegni. Si alza di notte per porre in immagini ciò che ha visto durante
il giorno. Con la penna in mano è tutto fare, meno nell'adattarsi alla vita e
mentalità della gente. Penso che non lo sfiori neppure l'idea di capire e ancor
meno, l'idea di vivere per qualche ora come gli abitanti del posto. L'esperienza
della malaria vive molto lontano da lui. Con fare scherzoso commenta tutto e
tutti senza remore. Da buon italiano deve ridicolizzare ogni cosa e le singole persone, alle volte
anche fuori posto. Trova l'osso duro solo
quando parla con l'Avvocato.
Questo vuole rendersi utile. Prima di mettersi in viaggio si documenta su internet e non accetta nessuna variante a ciò che ha
appreso nei suoi testi. La malaria deve manifestarsi in quel modo senza
eccezione, le persone sono state descritte in quel modo e chi non rientra nel
quadro non è del posto, le tradizioni sono quelle e non cambiano facilmente,
specie in un ambiente scientificamente arretrato. Legge in una carta geografica
del Mozambico che la temperatura locale
è di 18° e neppure l'evidenza del termometro gli fa cambiare idea. Non è possibile che lui abbia letto male e
neanche il solleone che picchia oltre i quaranta gradi riesce a
modificare la sua certezza.
Muxiro e Avvocato si rassomigliano in
molti punti, possiamo dire che vanno d'accordo, forse perché sanno di
rimanere per poco tempo vicini. Nessuno mai vince o perde, i due vivono
contenti nel proprio paradiso. Tengono allegra la compagnia e l'ambiente e
questo per noi è sufficiente. In una cosa vince Avvocato: nel magiare. Il primo
è moderato e signorile, il secondo è
esperto anche in macelleria e in cucina. Gli è affidato un maiale
pericoloso e in poco tempo lo abbatte, conficcandogli un chiodo in testa.
Questo metodo è quello da lui preferito perché l’animale non soffre, spiega
lui, “infatti il chiodo arriva subito alle cervella e l'animale non sente
dolore”. Questa è la sua esperienza e così deve fare.
Nella
comunità di Minhewene offrono una
gallina e al rientro a casa la mangia
ancora sanguinante. La divora tutta lui perché gli altri fanno notare che
ancora manca molto alla cottura. Questo è l'unico momento che azzittisce
Muxiro, incantato e meravigliato per quanto succede alla sua presenza. In
seguito non mancò il commento non ceto favorevole all’amico.
Non
sappiamo quanto i due abbiano capito della situazione nella quale hanno vissuto
per venti giorni. A noi è sembrato che i due abbiano volato molto alto
senza accorgersi neppure di lontano
dell’ambiente, delle persone e delle tradizioni del posto.
Entrambi ci salutano contenti perché nessuno di loro ha preso la malaria, nonostante i continui
richiami dei compagni. Avvocato non sa cosa sia l'esperienza di quella malattia e vive sicuro delle sue nozioni. Muxiro vuole
prolungare le sue vacanze. Prima di andare in Sudafrica si ferma a Maputo. Nel viaggio di andata
aveva conosciuto un istituto si suore e vuole fermarsi qui per conoscere la
città. Il caso vuole che proprio qui
arriva la malaria che lo costringe a rientrare subito in Italia non
certo sereno.
Ai
due ospiti auguriamo ogni bene che viene dalla vita.
Cicu
Insegnante di fisica a Torino, uomo sui
cinquant’anni, nato in Sicilia nella città di Siracusa, Cicu approda a Torino
ancora giovane per questioni di lavoro e lì
costruisce casa e famiglia. Ha una laurea in ingegneria elettronica, la sua passione è insegnare fisica perché in
questo modo può rimanere vicino ai giovani e aiutarli a crescere bene. Io lo
incontro a Nacala, da una settimana ospite del vescovo della città, Monsignor
Grachane. Questo con santa allegria mi dice che anche lui riceve visite
italiane. Io saluto il vescovo e l'ospite in italiano. Cicu, sentendomi parlare
in italiano, chiede subito di visitare la mia missione. I bagagli sono pronti,
il vescovo lo cede volentieri ed io mi ritrovo a casa un ospite altrui, non
programmato e da tutti inatteso.
Cicu
chiacchiera molto, vuole rendersi utile
e fare subito qualcosa poiché in episcopio non c'è niente da fare. Gli affidano l’incarico di controllare
l'impianto elettrico della cattedrale ma lui
è in Mozambico per la gente, non per i preti e ancor meno per il
vescovo. Si sente sfruttato dal vescovo e questo lo rende insofferente.
La
sua presenza a Memba disorienta i ragazzi dello studentato, i quali lo guardano
a distanza con ammirazione e diffidenza. Le troppe parole non convincono. Per
occuparlo anch’io gli faccio controllare l'impianto elettrico poco funzionante
della casa parrocchiale. "Non è la mia materia ma proverò a ricordare, non
sarà difficile", commenta l’ospite, cercando i fili: "Negativo e
positivo, questa è la terra che deve essere isolata, i fili non sono uguali ma
vedremo di fare qualcosa. Questo lavoro lo faccio perché è del popolo, permette
la crescita di questi bravi ragazzi. Vede padre come sono rispettosi e intelligenti.
Rimanere e lavorare qui è un piacere".
Cicu ha trovato il suo nido. Si spiega in italiano mescolato con qualche
parola di portoghese. Si mette all'opera
con buona volontà. Per aiutarlo gli affido Jaime, un ragazzo fra i più pazienti
che conosce qualche parola in italiano. Mentre manomette l'impianto
chiacchiera, racconta dei suoi alunni, della sua famiglia, della terra natia e
di quella adottiva. "Questa è provvisoria, non appena posso, vado in
Sicilia, Torino è una bella città ma troppo industrializzata, non mi
piace", commenta il nostro ospite.
Non
finisce di elogiare i ragazzi. Gli piace l'ambiente naturale non contaminato
dalla mano dell'uomo. Si oppone all'idea di un recinto che dia
riservatezza alla casa perché la gente
"quando va nella missione non può
aprire cancelli o pensare ad una
prigione, ma deve sentirsi a casa
propria. Non importa se il cortile è grande, con il recinto rimarrà sempre un
luogo chiuso. E' bello vedere le persone camminare senza utilizzare le
strade come si è obbligati nei paesi
ricchi. Non si può trasferire l'ambiente europeo in Africa", spiega Cicu
con autorità e competenza, tentando di farsi capire dal ragazzo. Jaime non
batte ciglio e ascolta aspettando che passi il tempo.
Seguendo
la sua logica, lo invito a trascorrere
alcuni giorni nella casa del suo aiutante dove non esiste l’ombra delle
comodità lasciate a Torino. "Morirei subito, io non sono abituato a vivere
in questo modo, parlo per loro, non per noi. Non capisco perché mi fa queste
proposte, mi vuole sfidare?", risponde pensieroso e quasi irritato il nostro ospite.
Cicu
si adira contro il Papa e la gerarchia ecclesiastica perché sfruttano il
popolo, perché facevano le crociate, perché vedono morire la gente e non
sollevano un dito per salvarla. I preti chiacchierano molto. Molte belle parole
ma nel momento dell'azione si ritirano. Il ragazzo che lo segue obietta che
tutti loro sono in casa di un prete e anche lui è ospitato in una missione. Al
sentire l’osservazione del ragazzo Cicu si ferma un attimo, riprende il lavoro
e risponde: "Il padre della missione non è un prete, è una persona che
pensa agli altri. Non se ne trovano molti. Roma è piena di preti che non fanno
nulla, dovrebbero venire tutti qui per vedere,
il Papa per primo". Quando l'ospite si accalora in simili argomenti
i ragazzi lo isolano. Alle volte rimane solo a sfogarsi e gli alunni lo
riavvicinano quando si è calmato o é in silenzio, cosa molto rara.
L’ingegnere é contento dell'ambiente umano, anch'esso al naturale, dove
ognuno fa ciò che vuole e si comporta come vuole. Nei momenti confidenziali si
sfoga e commenta: "Vede, padre, qui non ci sono problemi per divorziare,
non è come da noi dove i preti o il tribunale civile devono sindacare l'operato dei coniugi per imporre di vivere
come vogliono loro. Qui non ci sono spese particolari da affrontare, così è
bello". Fra me e lui si instaura un piccolo dialogo serio-scherzoso con
battute e risposte che lo fanno riflettere
ma non cambiare opinione. Inizio il dialogo con le sue immediate risposte:
"Ti piace aver conosciuto tuo padre?
- Certo
- La
maggioranza di questi ragazzi non conosce i genitori.
- Ti
piacerebbe avere una moglie che va con l'ultimo uomo che la invita?
- No, questo
no, mia moglie deve obbedire solo a me e non fare ciò che lei vuole.
- I genitori
di questi ragazzi hanno avuto 5- 6 e più "mariti" o
"mogli", per questo i figli vivono come possono e dove li accolgono.
- Cicu, ti piacerebbe non avere un tetto sicuro
che ti ripari e qualcuno che ti accolga?
- Certo che mi piace avere un tetto. Queste
sono le cose basilari della vita.
- Questi ragazzi non hanno un punto certo e
persone sicure che si curino di loro. E’ per questo che vagano senza meta e
senza un luogo dove fermarsi.
Il dialogo si chiude senza conclusione,
lasciando a ciascuno momenti e materia per la riflessione.
I
ragazzi si mostrano sereni, ubbidienti, pronti a ogni suo desiderio e questo lo
convince che, per il resto della sua vita, il suo posto ideale é Memba. Qui non ha i problemi familiari. Forse, stando nello studentato, la
moglie e i due figli lo ringraziano.
Noi ci divertiamo e mettiamo in evidenza
che, rimanendo con noi deve imparare il catechismo, frequentare le cerimonie
religiose e diventare amico del Papa. "No questo no", risponde
istintivamente, "amico dei preti mai, entrare in chiesa non è
possibile". Mentre noi scherziamo, e
lui fa sul serio, passano i giorni e non vuole andar via; non si vuole
muovere neppure per salutare e ringraziare il vescovo che lo ha ospitato in casa.
Trascorso un mese di permanenza a Memba lo
trasferiamo, quasi con forza, in episcopio e lì lo lasciamo.
Fortunati noi perché il nostro
ospite non ha mai avuto alcun sintomo di
malattia.
Maresciallo
Cicu e
Maresciallo si rassomigliano in molte cose.
Maresciallo non ha studiato molto
ma é esperto in tutto. Provetto cavaliere di fanteria. Nelle parate
faceva bella mostra con il suo gruppo all' Altare della Patria a Roma o dove le
alte autorità statali necessitavano di pompa. E' giardiniere col dovuto
riconoscimento della forestale laziale. Nel suo paese adottivo possiede un grande agrumeto curato con tutte le dovute attenzioni.
Produce molto più del suo fabbisogno. Da buon francescano dà in beneficienza a
un convento e ai conoscenti ciò che eccede il suo consumo. Lui pensa di non
poter vendere nulla perché ha già la sua pensione bastante per la sua vita. Ha abbandonato la
moglie perché non coordinava con lui, non sappiamo se abbia figli, cosa che a
noi non importa.
L’edilizia non é la sua specialità ma può seguire ugualmente
la copertura di una tettoia. Lo aiutano due ragazzi dello studentato con una
gran voglia di scherzare e molto poco
di lavorare. Capiscono alcune frasi d’
italiano e lo coprono di domande. Gli chiedono
a che serve un martello, come si
prendono le misure, come serrare un listello, e, in fine,, devono conoscere il
significato di tutti i movimenti che fanno. Per loro tutto diviene importante
pur di chiacchierare e di perdere tempo nelle spiegazioni che l'ospite dà con
competenza per tre o quattro volte, proprio come si addice ai bravi professori
e agli alunni intelligenti. Nel primo giorno di lavoro si scelgono dieci
listelli. Arriva la sera e rimandano il lavoro al giorno dopo.
Il
maresciallo è contento perché gli alunni imparano molte cose: Come scegliere il
legname, la sua durezza e, soprattutto
perché i ragazzi vogliono lavorare. Anche i ragazzi sono contenti perché
possono divertirsi e perdere tempo senza il rimprovero del padre missionario.
Avviso i ragazzi di non giocare con una
persona anziana e di responsabilità come il nostro ospite. Non manca il loro
assenso e, ridendo, dicono che lui è contento
di loro. Al terzo giorno riescono a coprire la veranda, collocano dieci
listelli e sette onduline in lamiera. Al pranzo del terzo giorno il maresciallo
è veramente soddisfatto nel consegnarmi
il lavoro che viene accettato di buon grado. Mi spiega che " i giovani
hanno imparato bene come si sistemano le onduline e così loro insegneranno agli
altri. Il lavoro si è prolungato perché,
i ragazzi, non avevano mai
lavorato con un bianco quindi non era facile farsi capire. Gli faccio osservare
che io non sono nero né verde, ma bianco come lui e i giovani vivono con me da
vari anni, inoltre, quel lavoro i giovani lo realizzano da soli in una
mattinata.
L'osservazione non arriva a lui.
“Mascalzoni”, dico amorevolmente ai ragazzi, mettendo avanti la stessa
osservazione. “Padre”, rispondono loro ridendo, “le abbiamo già detto che il
maresciallo è contento così. Non è bene fare felice una persona?”.
Dopo alcune settimane finisce il lavoro a Memba e l’ospite si
trasferisce a Kavà per iniziare la pulizia del terreno e la potatura di alcune piante di arance,
mandarini e limoni. Gli metto vicino Marzio, un ragazzo calmo, sempre
sorridente, con buona volontà di lavorare. La pulizia del terreno si presenta
complicata. “La terra non è stata mai coltivata”, dice lui, “e bisogna
liberarla da tutte le pietre, anche dalle più piccole”. Ci troviamo in un ambiente dove non è pensabile alcun tipo
di manutenzione e il concetto di pulizia è molto distante dal nostro, di
conseguenza la sua meticolosità non è capita né gradita. Il ragazzo ubbidisce
per alcuni giorni, studiando il maestro. Capisce cosa vuole l’anziano
agricoltore, gli fa infinite domande, dichiarandosi pronto ad apprendere il
mestiere mentre il maestro esegue il lavoro. Il maresciallo non si accorge che,
rispondendo alle domande, lui stesso
esegue tutto ciò che avrebbe dovuto fare l'alunno, il quale rimane
tranquillamente seduto ad osservare e chiacchierare.
Arriva il momento della potatura.
Marzio non resiste e va via.
Per il nuovo lavoro vuole due giovani che imparino subito così da
praticare nei loro villaggi l'arte della potatura. I nuovi apprendisti non
hanno intenzione di imparare. Stanno lì perché devono trascorrere in qualche
modo il tempo. Come gli altri si fanno ripetere tre, quattro, una infinità di
volte la stessa frase, “per capire bene e non sbagliare”, dicono loro. Passano
alcuni giorni e l'insegnante si stanca di spiegare sempre le stesse cose. Pensa
che i due siano menomati. Inizia a infastidirsi e a lamentarsi: "Non
capiscono nulla, io voglio persone che intendono imparare una professione, non
sono venuto qui per giocare con nessuno". E' inutile qualunque spiegazione
al suo problema e minaccia di non ritornare mai più in questa missione. I due
ridono. Vedendolo adirato ridono sempre di più perché hanno raggiunto il loro
scopo. Il maresciallo è disarmato, minaccia nuovamente di andar via e non
ritornare mai più nella missione.
Nonostante l’amarezza della situazione un momento di ottimismo arriva
anche per il Maresciallo e quasi si
ricrede di tutte le osservazioni fatte sul conto degli alunni. Come un fulmine
a ciel sereno uno degli alunni lo invita
a visitare la sua casa paterna e conoscere la sua famiglia. Possono andare a
piedi perché il villaggio è vicino.
Nove chilometri se si passa per i sentieri da loro conosciuti. Il maestro non capisce il significato
dell’invito e, pur mostrandosi contento, non accetta l’invito.
Nel frattempo arriva dall’Italia un altro
gruppo di giovani con il quale deve convivere qualche settimana. Dopo i primi
convenevoli anche questi ultimi vogliono divertirsi.
Maresciallo è molto religioso, non manca la
corona dalle sue mani, partecipa quotidianamente alla Santa Messa e fa la
comunione, non ama le distrazioni neppure negli altri. Si adira anche con me
quando non riprendo i giovani per le loro distrazioni durante le celebrazioni o
non vogliono recitare il rosario. Si offende quando lo chiamano Maresciallo
perché lui è ”maresciallo maggiore”, perciò, chiamandolo con il solo titolo di
maresciallo non lo riconoscono per quello che è.
"Tu non sei devoto, sei bigotto, valgono molto di più le nostre
distrazioni dei tuoi rosari", gli ripetono in coro i giovani. Apriti
cielo, mai nessuno ha detto che le distrazioni valgono più delle preghiere.
Maresciallo ha un momento di smarrimento poi con tono preoccupato e meditativo
ma deciso replica: "Padre, di questo passo dove finiremo? Mi meraviglio di lei che accetta in
casa simili persone ".
Fra discussioni serie e scherzose, visite nei
villaggi e preghiere arriva la conclusione della permanenza nella missione del
maresciallo maggiore, come hanno imparato a chiamarlo anche i compagni di
avventura. Con grande solennità viene accompagnato all’aeroporto, salutandolo
con baci e abbracci come si conviene ad un amico di lungo tempo.
Carlos
Mentre lavoro mi afferra un
freddo intenso e una febbre altissima. Lascio sul fuoco la padella, appoggio
sul tavolo ciò che ho fra le mani e vado a distendermi su una stuoia con
l’intenzione di riprendere subito il lavoro. Le giunture del corpo si snodano,
aumenta il freddo e il caldo corporeo. Riconosco i sintomi della malaria e mi
rassegno all’immobilità finché non passa. Mi sembra di morire. Non riesco a
muovermi né a parlare, tutti mi danno tremendamente fastidio.
Padre Ottavio spegne i fornelli e va alla mia
ricerca. Mi incontra rannicchiato sulla stuoia, tremante per il freddo e col
volto lucido a causa della febbre altissima. Mi rivolge alcune parole che io
sento bene ma le sue domande non hanno risposta. Non desidero e non voglio parlare con nessuno, preferisco
seguire i miei pensieri. Pensieri di angoscia e desolazione. Un fortissimo mal
di testa m’impedisce ogni movimento, mi sembra che anche il pensare aumenti il
dolore. L’unica idea fissa che occupa la mia mente è la morte. La famiglia, la
moglie, i figli non esistono, aspetto solo la fine. Non sento nostalgia di
nessuno e non spero di guarire. Solo il buio tetro dell’al di là mi dà
sollievo.
Il padre missionario mi chiede se voglio
il trattamento della malaria, rispondo con un semplice mugugno senza aprire gli
occhi o muovere un dito. Non rifiuto ma non credo di trarne profitto. Io penso
che se padre Ottavio vuole questo per me é buono. Subito si presenta un giovane
con in mano alcune pastiglie e un bicchiere di acqua. Dopo una mia piccola resistenza mi obbliga a
inghiottire tutto in sua presenza e va via. Mi addormento e mi risveglio dopo
alcune ore, più leggero, strizzante di
sudore. Non so dove sono, la testa mi gira vertiginosamente e mi sdraio
nuovamente. Nella mia mente riappare qualche speranza di salvezza che mi
permette di pensare alla famiglia. Questa era stata già avvisata della mia
condizione. Mentre io dormivo i due figli maggiori mi avevano visitato senza
disturbarmi ed erano ripartiti. Senza febbre, con le sole forze per camminare,
attendo che mi passi il capogiro e raggiungo la famiglia. La propria famiglia è
sempre la migliore per una degenza, anche se meno confortevole di altre. Il
padre non mi lascia andare solo e mi fa accompagnare da due giovani robusti:
non si sa cosa può accadere lungo la strada!
Passa la febbre, scompaiono i
malanni che la malaria porta con sé e io rientro alla missione per riprendere
le occupazioni quotidiane. Inutile raccontare ciò che ho passato in quei giorni
a casa. Tutti conoscono il travaglio della nostra malattia.
Carlos pensa che la malaria sia
comune a tutti gli uomini della terra per cui non esiste nessuna meraviglia,
nessuna agitazione ma solo aspettare con
pazienza che passi.
Tanti, tanti ringraziamenti a
Corlos per la sua serenità e allegria, nonostante tutto!
Berto
Ci sono dirigenti d’igiene e operatori ospedalieri
che non accettano bene di ammalarsi o che altri sappiano della loro sofferenza.
Così è accaduto a Berto, ispettore d’igiene, venuto nella missione a prestare
il suo prezioso servizio di volontario.
E’ inserito in un gruppo di
cinque amici che hanno alle spalle varie esperienze in
territori difficili arrivati sul posto subito dopo i relativi conflitti
bellici. Questa volta devono costruire una cisterna in cemento armato quanto
mai preziosa in un territorio, dove l'acqua si ritira per dieci mesi l’anno,
sostituita dal sole che picchia a oltre quaranta e quaranta cinque gradi.
Dopo
alcuni giorni dall’inizio dei lavori
Berto inizia ad accusare disturbi vari: inappetenza, malumore, febbre
non molto alta ma fastidiosa, le ossa tutte rotte, nostalgia della famiglia e
di quanto aveva lasciato in paese. Non
ha voglia di andare a lavorare né di farsi una passeggiata. Rimanere a letto
non sembra il caso. Trova in giro una Famiglia Cristiana, la sfoglia una, due,
dieci volte senza leggerla. Vicino al televisore ci sono delle videocassette
che desidera vedere, ma neanche queste lo soddisfano. Non c'è possibilità di
andare all'ospedale perché lontano e non accogliente. Secondo la comune
esperienza di chi conosce la situazione é certa la presenza della malaria. Propongo il trattamento, assicurando che in
tre giorni sarebbe rientrato nella normalità. Pur di rimanere con i compagni e
di rendersi utile accetta subito la cura ma, al vedere tutte le pastiglie, le
rifiuta. “Accetto il trattamento ma non tutte quelle pastiglie”, dice.
Il caso
vuole che anche io sento di avere la malaria e inizio la cura. "Tu sei
abituato e puoi prenderle, per me sono troppe", commenta l’ospite,
pensando che lo facessi per toglierlo
dall’imbarazzo.
La malaria fa
il suo corso e lui si sente abbandonato e disperato. "Padre cosa devo
fare, mi dia qualche cosa, io voglio lavorare", é il ritornello del primo
giorno.
Visitare
gli amici ma li sente estranei, non resiste per molto tempo nel vederli lavorare e rientra a casa.
Va a letto, si alza subito, gira per la stanza,
visita le galline e i maiali, rientra a casa, ritorna dagli amici. In nessun
compagno trova conforto, nessun luogo va bene per lui. Lo ignorano tutti e lui
si sente solo e abbandonato
Piangendo
si lamenta: "Padre mi aiuti, sono disperato, non so come fare a rientrare
a casa". "Fai la cura, tutto passerà subito, é così per tutti, vedi
come io sono guarito", insisto io. "Io non ho la malaria, le medicine
sono troppe, forse sono scadute, m’intossicheranno tutto il corpo",
riprende lui. "Sono le stesse che prendo io, non puoi dubitare",
spiego con un lieve sorriso. "Tu sei abituato ma io…, come faccio io a
presentarmi in questo modo a mia moglie, vedi come sono", insiste Berto
con tono disperato. Dopo un po’ riprende: "Padre, tu ridi quando io parlo
della mia situazione, invece di aiutarmi ridi. E’ così che si comporta un
missionario? Io sono lontano di casa, non so se riuscirò a rientrare; mia
moglie non mi accetterà più, come farà
mio figlio senza di me?". Si rivolge al cuoco: "Michele aiutami, il
padre mi ha abbandonato, soccorrimi
tu". Lacrime abbondanti bagnano il
viso. Le lacrime e i lamenti lacerano il cuore di chi non conosce la malattia.
In
questo modo trascorre alcuni giorni di terribile abbandono. Per noi quasi un gioco. Ben presto neanche Michele
trova parole adatte per consolarlo e si rifugia da Beppe, l'amico prediletto.
Questo lo convince a iniziare il trattamento tuttavia dopo le prime pastiglie
interrompe perché la clorochina é troppo amara e intossicherebbe il suo corpo.
Solo Beppe gli é rimasto come amico. Berto lo visita sul posto di lavoro, lo
attende in casa al rientro, si sfoga con lui benché neppure Beppe trovi parole adatte per rasserenarlo. Berto non
riesce più a lavorare ma di questo non
sembra preoccupato. Nella sua mente c’é
fissa l’idea di non essere accettato
dalla moglie e dal figlio per le pessime condizioni del suo stato.
Beppe,
con paziente costanza e con la grazia di Dio, riesce a far prendere
in qualche modo le pastiglie all’amico e anche per lui passa la malaria mai
accettata.
Forse
ha vergogna di essersi trovato debole davanti a una zanzara? Oppure ha paura di
altre conseguenze? O forse, accettando la malaria si sente il peggiore del
gruppo del quale nessun altro si è ammalato?
Auguri,
Berto; é più semplice raccontare che voler dimenticare. Un antico saggio dice
che “l’uomo grande sa accettarsi così com’é, ridendo e piangendo di se
stesso”.
Saper ridere di sé è la via migliore per vivere
contenti.
Uccio
"Questo schifo di luogo non lo sposerò mai".
Questa frase, gridata nel silenzio della
notte, mi sveglia improvvisamente.
Sul tardi il mio ospite va a letto sereno, senza accusare alcun
disturbo. Dormiamo nello stesso corridoio poiché siamo agli inizi
dell'avventura missionaria e non ci sono comodità. Durante la notte lo
raggiunge una febbre da delirio e un mal di testa fortissimo. Si alza,
passeggia, pronuncia frasi sconnesse, la sua preoccupazione è di non sposare
quel luogo. Cerco di calmarlo, spiegando la situazione, insistendo sul fatto
che tutto è dovuto ad una forte malaria presa improvvisamente. Si calma un
attimo poi ritorna il disagio. Lo preoccupano l'abbandono di tutti gli amici e
del padre missionario che non lo vuole più in casa. Cose simili gli tolgono il
sonno e lo rendono nervoso.
Una pastiglia per la febbre e la prima dose di clorochina lo riportano
nel lettino.
Durante il sonno si lamenta, si gira, lotta, sogna stranezze puntualmente dimenticate. Al secondo giorno
sembra già guarito ed é tentato di non continuare la cura. Cede di pomeriggio
quando arriva un malessere generale indescrivibile, assume nuova clorochina e
aspirina. Si ripete la stessa situazione del giorno precedente: Lo schifo del
luogo non è per il suo matrimonio, nessuno lo può obbligare a sposarsi e ancor
meno a sposarsi con questo luogo. Il terzo giorno é il peggiore di tutti. E'
una continua lotta contro il luogo maledetto che lui non può maritare. Anche se il luogo lo volesse portare a nozze per terminare ogni
malumore lui non lo può fare. Si sente abbandonato e incompreso da tutti. Nessuno
é in grado di capire la sua posizione. Non esiste una persona che s’interessa a
lui. Il padre non fa nulla per salvarlo benché si avvicini la sua morte lontano da tutti. A
distoglierlo da queste ed altre preoccupazioni
ci pensa un'abbondante dissenteria che istintivamente lo porta ai
servizi. Il raffreddore non passa, anzi,
al raffreddore si aggiunge la fuoriuscita di alcune gocce di sangue dal naso.
Rimane smarrito e tremendamente confuso. Mai aveva visto il suo sangue. Quel
liquido rosso lo incanta, mille pensieri lo assalgono. Gli sembra di morire
dissanguato. Vuole capire ed immaginare come vivrà senza sangue. “Nessuno può
vivere senza sangue, quale sarà la mia fine? Chi potrà insegnarmi a vivere
senza sangue?” Si chiede insistentemente.
Io sorrido e con calma lo incoraggio. La mia
calma e il mio sorriso peggiorano la situazione e si apparta. Si calma e mi
chiede se è così per tutti o se è lui che non riesce a superare la malattia.
Lo assicuro che è uguale per tutti, lui non è il peggiore.
Forse i sogni gli ricordano situazioni
passate e lo preoccupano ulteriormente.
Senza alcuna resistenza segue meticolosamente ogni mia indicazione,
rimanendo in casa per non incontrare nessuno e per non preoccupare i giovani
del suo stato di salute.
Dopo molto travaglio e lotta interiore l’ospite riacquista la salute,
dimentica la terribile situazione, riprende il suo posto nello studentato. Si
affeziona sempre di più alla gente, all’ambiente e si innamora del cielo
stellato mozambicano.
Uccio é un giovane che viene fuori da una esperienza di
tossicodipendenza. Ha trascorso molti anni nelle comunità terapeutiche e ora ha
finito la sua cura. Il giovane, consapevole delle difficoltà che incontrerà nel
reinserimento, prima di riprendere il lavoro che lo accompagnerà lungo la vita,
vuole trascorrere un periodo in un ambiente di estrema povertà, così pensa di
visitare il sacerdote della sua infanzia che nel frattempo è partito in
missione. Uccio era stato un chierichetto attento, puntuale, devoto. Le
circostanze della vita lo avevano condotto in ambienti non sani e a fare
esperienze non buone per rivalutarsi ed essere qualcuno nella società. Quella
caduta era stata per lui anche una reazione alla morte del fratello al quale
era molto legato.
Presentandomi le sue scuse mi chiede di accettarlo per un periodo nella
missione; avrebbe aiutato in ciò che sapeva fare. "E' poca cosa ciò che so
fare”, confessa il giovane, “perché in comunità ero addetto all'allevamento
degli animali e quasi niente ho appreso dei lavori artigianali". Uccio é
convinto di saper fare niente o poco più di nulla. Senza pensare molto gli do
la mia disponibilità per il tempo da lui desiderato. Lui rientra molto bene
nella mia idea di missione.
Io concepisco la missione aperta a tutti: a quelli del posto e agli
esterni. Dio non fa presenze di persone, nel suo cuore c'è posto per tutti quelli
che lo cercano con sincerità: per coloro che pensano di dover solo insegnare e
per quelli che sono alla ricerca di se stessi. Credo che questi ultimi siano
gli autentici missionari che lasciano una impronta dove passano. La missione è
l'annuncio del messaggio cristiano, non c'è missione se mancano coloro che
l'annunciano. Le visite sono i messaggeri inviati da Dio. A volte ci possono
essere messaggeri inconsapevoli ma non inutili. Per questo motivo non ho
esitato a dare la mia disponibilità a Uccio.
Ritrovo il mio chierichetto sereno, parla con tutti della sua esperienza e avvisa, specialmente i
giovani, di guardarsi bene dal seguire compagnie e situazioni dubbie.
Ascoltando i ragazzi dello studentato, impara le preghiere in makwa, poi le insegna a coloro che hanno più
difficoltà nell’apprendimento. Gli raccomando di avvisarmi se sente qualcosa di
strano nel proprio organismo perché potrebbe essere segno di malaria e con
questa non si può scherzare. Lui ride e, come tutti, risponde con parole d’incoraggiamento
nei miei confronti: "Non prenderò la malaria, non sono venuto per darle
fastidio".
Uccio è convinto di non aver preso la malaria, forse per non pensare di
aver infastidito il padre e i ragazzi o chissà perché. .
A Uccio vadano i nostri sinceri ringraziamenti, non solo per l'allegria portata
ma specialmente per quello che ha insegnato ed è stato in mezzo a noi.
La malaria non delude
Nel mese di aprile mi trasferisco a Corrane dove
vive padre Castellari, un missionario comboniano che, oltre alla sua missione
(Corrane) segue anche le due parrocchie di Liupo e Namigi destinate in seguito
alla mia cura pastorale. Il padre
Castellari vive nella missione di Corrane e, benchè di diversa diocesi, segue
fin dal periodo della guerra anche il distretto di Moginkwal con le due missioni
di Liupo (40 villaggi) e Namigi (38 villaggi).
A me è
stato affidato il distretto di Moginkwal e già inizio a prenderne visione. Mi
sento responsabile di quelle comunità e quasi indispensabile dal momento che
sono l'unico sacerdote e l'unico che possiede una macchina in tutto il territorio. Un altro fuoristrada si incontra nella zona nel periodo delle castagne, e quando lo incontro in esso c'è tutto il mondo. Sono
l'unica autorità che raggiunge i villaggi e costituisco per la gente un punto
di riferimento certo.
La guerra è appena terminata,
tuttavia molti ancora non credono che
sia veramente finita. La gente è stata aiutata sempre dal missionario e
solo in lui ripone una sicura speranza. Le persone
si fidano più del padre che di se stessi. Quando il padre arriva in una
comunità è festa, l'unica festa del villaggio.
Non bado alla stanchezza o ad altro, il mio
desiderio è di raggiungere tutte le
comunità nel minor tempo possibile per organizzare un lavoro organico e adatto
alla situazione. Con la prima esperienza malarica sono certo che questa non mi avrebbe disturbato più di tanto
e non penso minimamente ad essa.
Si
avvicina il Natale e, nel mio fervore
apostolico, a dir poco sconsiderato e imprudente, devo assolutamente
raggiungere tutti i villaggi per le confessioni e la celebrazione della Santa
Messa. Secondo lo stile missionario l’anziano della comunità pensa alle altre cerimonie in modo
autonomo.
La
notte del dieci di dicembre vado a letto stanco ma forte. Il giorno dopo mi
attendono ore di confessione e la celebrazione eucaristica domenicale. Non
conosco ciò che mi aspetta di lì a poco.
Dopo alcune ore di sonno mi sveglio
terribilmente sudato. Il cuscino, le lenzuola, il materasso sono inzuppati
dell’acqua che il mio corpo ha traspirato. Unito al caldo corporeo sento un
freddo glaciale. I reni non mi permettono di stare a letto né di camminare o di
fermarmi da qualche parte e ancor meno di sedermi. Mi alzo e cambio le
lenzuola, mettendo sul materasso bagnato gli asciugamani che possiedo. Inutilmente
tento di riprendere sonno. Il mal di reni è fortissimo. Mi alzo e non posso
camminare, mi siedo sul letto e il dolore aumenta. Ci sono nella camera due
finestre con le stesse dimensioni e alla stessa altezza dal pavimento. Per
riposare un po’ mi appoggio ad una di esse trovando sollievo per alcuni
secondi. Al contrario, nell'altra finestra non posso avvicinarmi perché lì non c'é riposo per me.
Si fa presente anche il singhiozzo che a brevi intervalli mi accompagna per
tutta la notte.
Mi sembra
indelicato disturbare padre Castellari
che gode il suo sonno restauratore nella camera accanto. Trascorro tutta la
notte passeggiando dal letto alla
finestra amica e ai quattro angoli della stanza con la febbre oltre i 40 gradi.
Arriva l'alba e con le prime luci tutti siamo in piedi. Racconto la mia
disavventura notturna al padre il quale abbozza un sorriso e dice: "Quando
capita così devi avvisare, questa è malaria". Mi da alcune pastiglie di
paracetamolo, subito abbassa la febbre ed io riprendo il mio lavoro. “Non mi
devo abbattere, devo vincere io, le comunità aspettano e se non vado io nessun
altro mi può sostituire”, penso nel mio falso fervore missionario.
La malaria
fa il suo corso, le suore e il padre mi vogliono mandare all'ospedale di Anchilo
distante novanta chilometri ma io rimando a dopo le feste. Faccio in casa la
cura ma la febbre non mi passa. Arriva la domenica che anticipa il Natale di tre giorni. Nella sede
parrocchiale non è prevista la celebrazione eucaristica tuttavia , sentendomi
meglio mi presento in chiesa per le confessioni e la celebrazione eucaristica. Non avrei
predicato perché sarebbe stato troppo pesante.
Prima
della messa ricevo le confessioni, molte
confessioni sia perché é il periodo di Natale, sia perché eè da tanto tempo che
non si celebra l’ Eucaristia e con essa neppure il sacramento del perdono. Durante le confessioni sento forti brividi di
freddo seguiti da un abbondante sudore.
Non sono ancora le ore otto ma
il caldo si fa sentire prepotente, aumentato dalla febbre altissima.
Continuo a confessare per oltre un'ora, poi inizio
la Celebrazione Eucarestia. Durante una piccola riflessione che sostituisce
l'omelia, dettata dal seminarista presente, devo uscire dalla chiesa per un
attacco di vomito. Tutti si meravigliano e alcuni mi seguono. Con l'incoscienza
di chi non conosce limiti riesco a terminare la Santa Messa. Subito vado in
camera e stendo sul letto. Con due aspirine cala la febbre ma rimane forte il
dolore ai reni. Nessuna posizione corporea soddisfa il mio caso.
Le suore e
il padre Castellari mi invitano ad andare ad Anchilo dove c'é un ospedale diretto dalle suore comboniane. Il mio
intento é di lasciar passare le festività ma non resisto e domenica 23 dicembre il padre Castellari mi
accompagna ad Anchilo. Lungo la strada riappare il singhiozzo prima lieve poi
sempre più forte. Mi distrugge l’apparato respiratorio e la cassa toracica, la
gola è riarsa. Arriviamo a destinazione nel primo pomeriggio e, per caso
incontriamo nel cortile di casa Suor Maria, la direttrice del centro sanitario.
E' una donna non giovane con grande esperienza, alta, magra, con pochi sorrisi
e fare deciso, proprio come i primari
dei grandi ospedali che tutto hanno da insegnare e poco o niente da
imparare. La suora saluta padre
Castellari e guarda me. "Vuole un ospite illustre?", anticipo io
contento e sorridente. "Vai subito a letto, io verrò fra non molto",
risponde lei seria e senza aggiungere altro. Mi danno una stanza nella zona dei
Padri. Questi vengono a salutarmi e a congratularsi con me per la malattia che
non si presenta leggera ma non diversa da tante altre che loro hanno assaporato
nel cammino missionario. L’infermiera mi riempie di flebo e pastiglie. Non ho
voglia di mangiare, é aumentata la febbre, sono ritornati il vomito e la
dissenteria, i reni sono calmi, stranamente non ho mal di testa né altri
dolori. Il giorno di Natale arriva per due volte il primario dell'ospedale
centrale di Nampula. La suora infermiera si preoccupa non tanto della malaria quanto
del singhiozzo che dura da troppo tempo
e non intende lasciarmi in pace. Giorno e notte, senza alcuna interruzione mi
dà battaglia. Anche i padri sono preoccupati perché il ritmo del singhiozzo si
sente da cinquanta metri di distanza. Mai
avevano assistito ad un fenomeno del genere. Forse, dopo qualche giorno,
inizia a disturbare il loro lavoro e il riposo. Il singhiozzo dura quindici
giorni poi mi lascia, portando con sé le mie forze. Lo spirito è allegro,
nonostante tutto. La forte inappetenza preoccupa tutti, provocando continue visite per
controllare il mio stato di salute. Dopo venti giorni di lotta serrata
finalmente posso rientrare a casa, debole ma con la volontà di continuare la
visita nelle comunità.
Da
Corrane mi trasferisco a Liupo dove sono arrivate altre suore per riaprire la
casa di quella missione abbandonata durante la guerra. Insieme ci saremmo presi
cura di quella vasta area. Il nuovo centro dista da Corrane, sessanta chilometri. Riprendo la catechesi, i
battesimi e i matrimoni che il mio predecessore aveva segnato nel calendario.
La mia debolezza forzata dal grande lavoro provoca la ricaduta della malaria.
Questa volta si presenta con una febbre meno forte e senza dolori particolari.
E’ mancato l'appetito, le giunture delle ginocchia non mi reggono, Un malessere
generale si impossessa di me e mi rende
strano. Così credo che appaia anche agli occhi delle suore le quali mi
invitano ad andare nuovamente ad Anchilo.
Una
suora ospite patentata si offre per accompagnarmi.
Mi decido, nonostante mi pesi la lunga
distanza. Quattro ore di macchina su strada sterrata e poco livellata non sono
uno scherzo tuttavia ci diamo appuntamento per il giorno dopo alle ore cinque.
Arriva il momento della partenza, la suora non si vede, è ancora a letto con
febbre alta. Mi avrebbe accompagnato col patto di non guidare. Ci penso un
attimo poi ci incamminiamo, io al
volante e lei seduta vicino che tenta di dormire. Sento la macchina strana: le
ruote vanno in modo incontrollato, il volante non lo sento nelle mani, la
carrozzeria é tutta rovinata e staccata dagli incastri, vedo la strada non con
le normali buche ma tempestata da voragini e baratri. La perfetta conoscenza
della strada e l’uso del cervello mi danno la possibilità di una guida sicura e
di vincere le mie sensazioni.
Dopo
quattro ore arriviamo senza problemi ad Anchilo. Si fanno le analisi ai due
pazienti. Il risultato è chiaro: la suora ha la malaria con 5 croci, (cosa
rarissima), io solo con due accompagnata da una forte debolezza. L'infermiera
mi mette subito a letto, attacca la flebo al braccio sinistro e mi addormento.
Quando mi sveglio non capisco dove sono,
non ho più la flebo attaccata. Vivo in un ambiente strano.
Benché
fossi andato a letto di venerdì , per me, il giorno dopo è domenica. Tutto è silenzio, non si sentono
i tamburi della celebrazione, nessuno va in chiesa, l'unico movimento presente era il padre Antonio Bonato che
pulisce davanti alla sua camera. Faccio
un giro per incontrare qualcuno e
collocarmi nel tempo e nello spazio. Il padre mi dice che il silenzio è dovuto
al fatto che quel giorno è lunedì non domenica. La mia incredulità mi porta ad
informarmi dal cuoco. Questo mi assicura la stessa data: Lunedì, non domenica.
Un altro padre mi conferma lo stesso giorno e mi dice che, tutti sono meravigliati
per il sonno che mi ha afferrato. Nei giorni precedenti tutti controllavano il mio riposo e il singhiozzo
che mi aveva nuovamente visitato. Questa
volta il singhiozzo è stato più benevolo ed è rimasto con me ininterrottamente
solo una settimana. Faccio l'ammalato
per oltre venti giorni, poi rientro a casa. Sono estremamente debole, dimagrito
di quattordici chili. La malaria è curata perfettamente ora occorre un periodo di riposo. Mi decido a rientrare in Italia.
In maggio arrivo in Italia. Nell’ aeroporto di Fiumicino mi raggiunge P.
Mario che mi vuole trattenere a Roma per qualche giorno, io invece ho fretta di
arrivare a casa. Nell’ attesa dell’aereo per Olbia mi obbliga ad andare in
convento per rinfrescarmi e radermi la barba lunga di tre giorni. In questo
modo mi sarei reso più presentabile agli
occhi dei familiari.
Imbarco nell’ultimo aereo per Olbia
dove mi attendono tutti i familiari e gli amici del posto. Tutti
vogliono rassicurarsi del mio stato di salute. Mi guardano ammirati come un
essere strano, nessuno mi saluta poiché é superfluo chiedermi come sto. L'amico
Mario mi raggiunge al nastro e non vuole trattenermi neppure per ritirare i bagagli.
Mi avverte che non sarei rientrato mai più in quel posto maledetto; che la mia
esperienza missionaria era finita e che mi avrebbe fatto ricoverare immediatamente in ospedale. All’
arrivo dei passeggeri mi attendeva tuta la famiglia: La sorella maggiore,
abituata a piangere di allegria o di preoccupazione, non versa una lacrima, gli
altri mi accompagnano alla macchina, si caricano i bagagli e subito si parte
alla volta di casa. Non ricordo se ho salutato l’amico, se non l’avessi fatto
in quel momento lo faccio ora ringraziandolo con grande simpatia. Anche il parroco, nel vedermi il giorno dopo,
con le braccia aperte, ha una sola espressione: “Eh, Ottà”.
Durante le ferie Andrea mi
obbliga a sostare tutti i giorni sulla bilancia per controllare il peso. Nel
frattempo in tutta la diocesi si diffonde la notizia del mio arrivo in condizione di salute molto precaria. Al
terzo giorno, di buon mattino, un medico dell'ospedale dove lavoravo prima di
andare in missione mi telefona per chiedermi se qualcuno mi può accompagnare in
ospedale oppure se è necessario mandare
l'ambulanza.
Faccio tutte le analisi dovute ma, con grande meraviglia e anche con una
benevola delusione del medico, i risultati
non rivelano alcuna traccia negativa. Le vacanze si sono protratte per
tre mesi durante i quali ho ricuperato dodici chili che mi permettono di rientrare in Mozambico rinnovato nel corpo e nello
spirito.
Questa volta ho imparato a non scherzare con la malaria. La devo considerare
come una compagna di viaggio e con essa non posso giocare come voglio.
Ora siamo buoni amici e come tali ci si deve comportare fin dall’inizio della
sua visita.
Il Gemello
Gabriele
Ancora un'altra
All’aeroporto
di Nampula si meraviglia perché lo
saluto chiamandolo per nome. Non sa
spiegarsi come io conosca il suo nome già prima d’incontrarlo.
Alcuni mesi prima di lui il fratello Salvatore
è stato in mezzo a noi prestando la sua opera di volontario. Per tre mesi quest’ultimo lavora i tronchi di ebano per la realizzazione
di un altare e un leggio da sistemare
nella cappella di Mirepani in via di ristrutturazione. Salvatore rientra a casa contento, invitando il suo
gemello a fare la stessa esperienza.
Il ’Gemello', così lo chiameremo nel nostro
racconto, inizia bene. E' soddisfatto della nuova esperienza, “la più bella
della sua vita”, dice lui. Nella missione insegna ad alcuni ragazzi la
lavorazione del ferro, professione che lui esercita in un laboratorio di
artisti in Italia. Conosce qualcosa di elettricità
e la trasmette volentieri ai ragazzi con i quali entra in perfetta sintonia.
Dopo pranzo è d'obbligo un bagno al mare, contento di immergersi nell'Oceano
Indiano che trova meno salato del Mar Mediterraneo. Sul tardi, non manca una
visita nel villaggio con i ragazzi dello studentato. La gente lo guarda e
ammira i suoi lunghi capelli, interrogandosi sul perché un uomo porti lunghi
capelli. Con i ragazzi si pavoneggiano a
vicenda: lui perché è scortato da giovani neri, questi perché fanno da ciceroni
a un bianco.
Anche per lui non tutto corre secondo i propri
desideri e un’altra esperienza fuori programma lo attende.
Mentre
si trova su di una scala per terminare l'impianto elettrico del laboratorio
cade. La faccia si riempie di ferite e un piede diventa pesante e molto
delicato. Sente un fortissimo dolore a
un braccio, come di qualcosa di rotto. E' un venerdì pomeriggio. Di
pomeriggio il pronto soccorso è chiuso. Il sabato e la domenica non ci sono
emergenze che possano essere attese. La conclusione è che il giovane non può
essere soccorso subito e deve sopportare dolori lancinanti per alcuni giorni. Il
lunedì seguente lo trasferisco ad Alua, dove c'è un ospedale diretto da una
suora comboniana. I raggi rivelano una frattura al braccio e la fuoriuscita
dell'omero. Occorre portarlo all'ospedale centrale di Nacala. La strada non è facilmente praticabile e l’ora
è ormai tarda. Il giorno seguente i musulmani festeggiano il Ramadan, ( la
conclusione del grande digiuno) e all'ospedale non fanno nessun trattamento che
non sia d'urgenza, (qui ‘urgente’ significa pericolo di vita). Il passare del
tempo non facilita il buon esito della situazione. Il giovane è giustamente
preoccupato. Dopo quasi una settimana dall'incidente si arriva all'ospedale di
Nacala, dove gli rimettono a posto l'omero e gli ingessano il braccio.
Gemello è più sereno, il dolore è diminuito.
L’amore per i giovani dello studentato gli danno la forza di seguire, in qualche modo, i lavori iniziati.
Si direbbe che tutto è risolto. Purtroppo non é così. Il giovane si sente strano ma non
vuole manifestare il suo malessere.
C'è
una ferita nel piede che non si riesce a curare. Non servono le pomate, l'acqua
del mare non risolve il problema. Per quella ferita non si trova rimedio. Non è
grande ma é prepotente. Gemello non è
soddisfatto del cibo che Carlo prepara alle volte insipido o troppo salato, altre volte eccessivamente
cotto. Per rispetto non protesta ma è insofferente. La febbre ancora non è tale
che possa costringerlo a letto. Ha
alcune preoccupazioni che lo tormentano: La gallina, il tetano e quella ferita
sempre più puzzolente.
C'è una gallina che lo perseguita, gli becca
la ferita e depone le uova ai suoi piedi. Non uno o due ma tante, tante uova
che lo tormentano. Non è contento delle molte uova che quotidianamente quel pennuto
depone davanti a lui, né pensa di utilizzarle. Gemello non ha spiegazione al fatto che una gallina
deponga le uova ai suoi piedi anziché nel luogo proprio. "Quella maledetta
gallina la devo ammazzare, non m’importa nulla, se non la smette di
importunarmi farà brutta fine”, ripete il giovane con alcuni ragazzi, ormai
divenuti suoi confidenti. La manda via ed essa ritorna, la ricaccia e riappare
nuovamente. Non osa dire nulla al Padre, si sfoga con i giovani i quali, con
lui assumono il volto triste, quasi
funereo, poi ridono e imitano. “Gemello ha la malaria”, dicono al padre in
separata sede, e raccontano ogni particolare.
Non
meno preoccupante è la ferita del piede. Questa assume proporzioni gigantesche.
Lui sente già la puzza della
putrefazione. Col braccio ingessato e il piede ferito non può andare molto
lontano, tuttavia deve rientrare in
Italia. Come fare?
"Padre, quanto tempo dovrò rimanere ancora col
gesso?
Farò in tempo a toglierlo prima di partire?
E la mia ferita perché non guarisce? È così
per tutti?
Padre, mi taglieranno il piede, e poi la gamba, come
potrò camminare?
Come presentarmi in casa?
Che cosa dirà mia madre?
Sono partito sano con due piedi e rientro con uno,
mia madre mi accetterà in casa?"
Per la
disperazione non c'è tregua, i pericoli aumentano e raggiungono proporzioni e
forme inimmaginabili. Tento di fargli capire che tutto può dipendere dalla
malaria che ha preso. Lui si
offende: “Lei mi vuole distruggere”, ripete alcune volte sottovoce. Per lui non
è possibile quel tipo di malattia, lui non la conosce, non ha mai preso la
malaria e rifiuta ogni tipo di terapia.
Arriva
nella missione suor Linda, responsabile di un centro sanitario vicino. Il padre
le presenta subito il caso. Lei visita attentamente l'ammalato e diagnostica:
"E' malaria, la ferita non rimargina finché non passa la malaria e il
braccio avrà dei problemi, è bene fare
la cura della malaria e tutto si risolverà subito. Non c'è nessun
pericolo per il braccio né per il piede se si fa la cura della malaria. La tua
madre ti riceverà contenta più che mai e tu potrai raccontare tutto serenamente".
La sentenza della suora lo convince e Gemello davanti alla religiosa ingoia senza problemi
le numerose pastiglie: Quattro oggi, quattro domani, due dopo domani con una
aspirina al giorno.
Nei tre
giorni si susseguono tutti i sintomi della malattia: dissenteria, vomiti,
febbre, dolori vari. I sogni non lo lasciano in pace e le preoccupazioni
continuano sempre più pressanti. Gemello è del tutto smarrito. Alle
preoccupazioni normali si aggiunge quella di non far trapelare nulla al padre
missionario. Al contrario questo è informato tempestivamente dai giovani. Non
va all'ospedale per il dovuto controllo del gesso perché lo toglie da solo
prima del tempo. Non vuole rientrare in
Italia col braccio ingessato o altre fasciature. Passata la malaria, come per
incanto tutto si normalizza: Scompare la ferita, lo lascia la gallina, dorme
serenamente, è certo che la madre lo accetterà con i dovuti onori.
Gemello non dimenticherà l'esperienza
mozambicana non solamente per la malaria
o l'incidente ma in particolare per le amicizie maturate con i giovani dello
studentato.
A Gemello vada il nostro ringraziamento per la
sua cordialità, la sincerità, la semplicità
e per il lavoro che ha insegnato.
Gabriele
Gabriele: Uomo spavaldo, sui
cinquant’anni, molta esperienza alle spalle, provetto elettricista, all’occorrenza
tutto fare. Estroverso, anche troppo, ha
il cervello di un giovane avventuriero. Quando mette un’idea in testa, non lo
ferma nessuno. E’ difficile non “bisticciare” con lui, se non c’é motivo lo
inventa pur di discutere con animosità. Con lui tutto sembra facile perché ogni
cosa lui deve provare e, dove non riesce, involontariamente rovina. Vuole
essere il primo in tutto, anche nella salute, infatti, non ricorda di essersi
mai ammalato ‘seriamente’. Prende in giro il suo amico Luigi il quale dopo dieci
giorni é a letto con la fatidica malattia. Lui era stato in missione un’altra
volta e non aveva riportato nessun disturbo. Anche questa volta sta per finire
le ferie e non sente alcun sintomo di malattia.
Così si presenta Gabriele, ricco di varie
esperienze umanitarie in posti di guerra.
Luigi
ha finito il trattamento di una malaria forte e pericolosa che lo prova
seriamente. Dopo simili degenze é saggio e prudente un ulteriore controllo. Insieme al suo caro amico di buon mattino lo
accompagno a Namahaca. Gabriele ride del
male altrui sicuro di sé. In realtà ride troppo, non cessa di parlare, infastidisce
l’amico e tutti noi per lo sproloquio senza pausa. All’ospedale anche lui vuole
fare l’analisi per dimostrare a tutti la sua buona salute. Avvisa l’analista
che é quasi inutile ciò che sta per fare perché lui é sano. L’operatore
sanitario non sembra della stessa opinione e, abbozzando un sorriso, preleva il
sangue. “Vedi com’è rosso il mio sangue, puoi tirarne quanto vuoi”, commenta il
nostro ospite. Si attende il giusto periodo di reazione della medicina ed ecco
il verdetto: Luigi ha solo le conseguenze della malattia mentre Gabriele presenta una malaria non lieve (due croci). In
un primo momento il nuovo paziente si ribella, accusa l’operatore di aver
sbagliato tutto. “Non é la prima volta che sbagliano i medici, qui é chiaro”, commenta Gabriele.
Rientriamo a casa: l’uno contento per il
recupero, l’altro preoccupato per la sua situazione. Gabriele inizia a pensare,
lascia la spavalderia, si fa taciturno. Mi gira attorno come un bambino, facendomi
ogni sorta di domande: “Che ne dici Padre, avrò veramente la malaria? E’ facile
curarla? Lascia delle conseguenze? Forse
mi somministreranno medicine scadute e peggiorerà la situazione?”
La paura di cambiare fisionomia e di non essere più
riconosciuto lo rende ubbidiente in ogni cosa. Gli sembrano troppe le pastiglie
e chiede una riduzione che non gli è concessa: “O tutto insieme o niente e
nessuno sa cosa diventerai”, spiego io
col volto serio e preoccupato. “Va bene, farò come dice lei”, replica
l’ammalato. Il momento é serio,
tutt’intorno si fa silenzio, l’ospite non ammette scherzi.
Dissenteria e vomiti accompagnati da un’improvvisa
febbre altissima occupano le ore della prima giornata. La casa di bagno diventa
il luogo più visitato e alla fine della giornata si sente stanco, disidratato e
senza forze: “Se continuo così, non rimane nulla di me”, commenta con un filo
di tristezza.
Al secondo giorno si lamenta dei sogni: “Sono
stanco di sognare, non ho dormito nulla, ho solo sognato cose strane, agitate,
i sogni mi mettono di malumore. Io non ho mai fatto né pensato cose simili. Io
non sono mai stato in guerra, quello che ho fatto non l’ho raccontato a
nessuno, neppure a mia moglie, cosa mi vengono a dire”. Inutilmente tento di fargli capire che i sogni
non hanno nessun fondamento. “E se fosse vero tutto ciò che ho sognato?”,
continua a ripetere.
Passa un altro giorno, inizia a essere più
sereno, quasi guarito, ammette di scherzare sugli altri, non su di sé. Di
pomeriggio peggiora la situazione e Gabriele deve viaggiare spesso per i
servizi igienici, scoraggiandosi sempre
più. Deve prendere qualche pastiglia in più e questo lo agita. Le ossa sono spezzate,
le forze sono scomparse, lui invoca la
moglie. Quella moglie descritta da lui come donna paziente, di poche parole,
che lo aspetta giorno e notte, la vede presente e consolatrice sempre in attesa
del suo ritorno.
E’ arrivato il momento in cui Luigi scherza con l’amico. Per esperienza sa bene
che ancora un giorno e anche Gabriele ritornerà alla normalità e per questo
mette legna nel fuoco della disperazione. Deve restituire all’amico ammalato le
terribili e sarcastiche risate che faceva sul suo conto. Stando in piedi inizia:
“Vergogna, tua moglie non ti accetterà più, a giorni dobbiamo rientrare e tu
sei ancora in queste condizioni, tua moglie e tuo figlio non ti accetteranno
così, sei irriconoscibile”. “Zitto, mia moglie mi accetta sempre, mio figlio è
grande”, replica Gabriele. “Non è così, riprende Luigi, sei diventato pelle e
ossa, al tuo paese nessuno ti riconoscerà, dovrai emigrare, andare lontano dove
nessuno pensa a te, sei diventato una vergogna, io non ti voglio più”. “Mi stai
facendo impazzire, io non ti conosco e tu stai in mezzo ai piedi ad importunare
la brava gente. Padre, lo allontani, io
non lo conosco”.
La lotta per fargli assumere le
medicine non finisce mai, per lui sono sempre
troppe e incerte. Io non mi scoraggio e continuo la terapia ora con lusinghe, altre
volte con minacce.
Si arriva alla fine della cura e
l’ammalato sembra non essere guarito. Mentre Luigi ha ripreso subito le forze,
Gabriele stenta a riprendersi. Ci vorranno ancora due o tre giorni affinché la
situazione si normalizzi del tutto e recuperare la consueta spavalderia. La malaria
non gli ha insegnato molto. Gabriele considera quel triste momento, di cui non
ricorda quasi nulla, un incidente di percorso che nulla toglie alla sua bravura
e alla sua supremazia che crede di avere sugli altri.
Per noi sarà difficile dimenticare i due
amici e nel loro ricordo trascorreremo lieti momenti.
Grazie Luigi, grazie Gabriele.
Sono trascorsi sei mesi senza un sintomo di
malessere. Mi meraviglio come abbia resistito tanto tempo senza ammalarmi. Col
trascorrere del tempo si accumula il lavoro e viaggio da un villaggio all'altro
quasi quotidianamente. E’ in costruzione una chiesa in una comunità del tutto
isolata e la mia presenza é indispensabile per far procedere i lavori. Gli
operai sono buone persone ma non conoscono bene le misure e dove ubicare porte
e finestre. Se lasciati soli sono capaci di chiacchierare per tutto il giorno,
seduti nella stessa posizione senza muoversi di un centimetro. Per loro,
infatti, ciò che vale è andare al posto di lavoro, la realizzazione dell’opera
è del tutto secondaria. Ricordo che una volta sette operai sistemarono dieci
blocchetti in un giorno e un falegname con tre operai fissarono due tavole con
venti chiodi, sempre in un giorno lavorativo.
Nella mia mente si è cancellata la possibilità di ricadere ammalato e aumento il ritmo del
lavoro. La malaria, al contrario, fa il suo corso in modo silenzioso, subdolo
e aspetta il momento propizio per
afferrarmi. Il momento arriva improvviso e violento.
Sul tardi della giornata mi trovo sulla via che da Nacala mi porta a
casa. Mancano pochi chilometri all’arrivo quando vedo la strada del tutto nuova
e sconosciuta. Se non avessi la certezza che quella è l'unica via che va a
Memba avrei vagato chissà dove alla ricerca di quella giusta. Non ci sono punti
di riferimento per farmela riconoscere, i villaggi che attraverso sono per me
sconosciuti, la vegetazione non é quella di sempre. Prima il freddo, poi il
caldo intenso precedono un forte mal di testa, la macchina sembra andare alla deriva, io non riesco a governarla. Per i ragazzi che
viaggiano con me tutto é normale, anzi,
questa volta il padre é più prudente che mai. Il volto del padre é sì più rosso
ma nulla di preoccupante. Un ragazzo dorme pacificamente nel cassone.
Quei
pochi chilometri che ci separano da casa diventano interminabili. Anche il
giovane seduto vicino a me dorme, gli altri cantano, ripetendo sempre lo stesso
ritornello che m’infastidisce enormemente.
Spesso sono tentato di farli tacere ma la certezza che sono io il fuori
gioco mi fa resistere fino a
destinazione. Lo stare seduto alla guida accentua il mal di reni. Il mio corpo prende la forma del sedile, a
fatica riesco a scendere dalla Land Rover e a stare in piedi. Quel fuoristrada è diventato altissimo e nel
mio intimo mi adiro con chi l’ha progettato. Anche l'allegria e i saluti di chi
era rimasto a casa mi danno fastidio. Quella gioia spontanea e sincera dei
giovani si trasforma per me in una commedia.
Niente
di buono vedono i miei occhi, tutto
negativo pensa il mio cervello. Io stesso mi meraviglio come rimanga in
mezzo a loro. La conoscenza della malaria ridimensiona i miei giudizi e mi dà
la certezza che tutto sarebbe passato al quarto giorno.
Arrivato a casa, prendo subito clorochina e aspirina e vado a letto. La
prima dose diminuisce la febbre, mi rende più sereno ma non impedisce vomiti e
dissenterie che si susseguono quasi di continuo per alcune ore. Dimentico il
pranzo preparato dal cuoco, anzi, non
sopporto l'idea di dover mangiare.
Si
alternano momenti di angoscia con altri di serenità che giustificano i primi.
Nell'angoscia penso che tutto sia finito, quanto faccio è inutile, non ha senso
ciò che mi circonda.
Devo ancora ridimensionare i miei pensieri ed
emozioni e ogni cosa trova il suo vero valore.
Da
sveglio anticipo i sogni malsani, quasi
a prepararmi ad affrontarli durante il sonno. Intrighi, guerre, grovigli di
ogni genere, figure strane appaiono e scompaiono, lottando fra di loro senza
sosta. Chiudo gli occhi e aspetto il riposo per verificare se durante il sonno
diventa realtà quanto ho pensato.
L'orologio è l'unico compagno fedele per controllare lo scorrere del
tempo.
Ho
sistemato il sottotetto del corridoio dove dormo e sono scomparsi gli insetti e
i piccoli animali che lo popolavano. Non posso più contare le piccole bestiole,
né accompagnarle nelle loro fughe, o studiare il loro vivere. Mi pento di aver
ripulito la mia casa. E’ grande la tentazione di distruggere tutto per dare la
possibilità a ragni, topi, lucertole, pipistrelli e a quant'altri animaletti di
circolare indisturbati sulla mia testa. In tal modo avrei avuto una compagnia sicura
durante la malattia. Ora mi sento
dimenticato anche dagli animali. Nel corso della notte la febbre mi lascia e
diminuiscono dissenteria e vomiti ma continuano fino all'alba il pessimismo e
l'angoscia. Penso a coloro che per la prima volta prendono la malaria e capisco
la loro disperazione e lo smarrimento. Dò una giustificazione razionale di ciò
che mi succede e questo mi aiuta nell'attesa che tutto finisca, ma in essa non
trovo consolazione.
Arriva il nuovo giorno e con esso anche un po’ di distrazione e di
serenità. Ai vomiti si sostituisce un fortissimo dolore ai reni che mi obbliga
a stare a letto per tutta la mattina. La febbre va e viene come vuole con punte
alte prima di assumere l'aspirina e basse subito dopo. I ragazzi non osano
visitarmi ma s’informano di continuo sul corso della malattia. Il cuoco, che
non si allontana un momento da casa, fa da tramite fra il mio mondo e
l’esterno. Per tre giorni non si sente in giro alcun rumore, si parla sottovoce
per non disturbare il padre. Quando questo è ammalato, ogni cosa diventa precaria.
Al
pomeriggio del secondo giorno sembra tutto passato ma non è così. Alla sera riappaiono
i disturbi tipici della malattia meno acuti ma ugualmente forti. La notte è
agitata e durante il giorno seguente non trovo pace in nessun luogo. Passa
anche il terzo giorno e arriva il sereno. Ritorna la normale visione delle
cose, riprendo con forza il lavoro interrotto, accelerando per ricuperare il
tempo perduto. Al secondo giorno dalla convalescenza noto che in me qualcosa
non funziona bene. Non so identificare ma c'è qualcosa che non è esatto.
Trascorrono alcuni giorni di attesa: forse è l'effetto delle medicine
che fanno il loro corso nell'organismo. L'appetito non è quello di sempre,
riappare la stanchezza, mi ritrovo una piccola ferita che non si rimargina,
l'acqua ha un sapore strano che non avevo mai notato, penso che il fedelissimo
cuoco stia trascurando le cose essenziali.
Finito il periodo di attesa, faccio le analisi e mi riscontrano una
malaria resistente peggiore della prima. Si passa per la seconda fase del
trattamento che si deve subito interrompere per somministrarmi il chinino.
Questo fa il suo effetto 'miracoloso'.
Quest’ultimo medicinale, se somministrato bene e in tempo elimina con certezza la malaria, ma dopo ripetuti interventi lascia i suoi
malefici ricordi alle volte irreversibili.
Ai disturbi tipici della situazione, questa volta
si aggiunge la voglia di parlare. Devo
commentare tutto, ogni cosa deve essere ben chiarita, nulla può sfuggire
all'osservazione. Le persone che incontro sono inondate di domande e tutte
rimangono perplesse per l’interrogatorio improvviso al quale sono sottoposte.
Quando
si ha una malaria resistente, difficilmente, si rientra nella normalità in tre
giorni. Con gli effetti delle medicine si può trascorrere una intera settimana.
E'
passata anche questa e posso raccontarla con l'aiuto di coloro che mi ricordano
le stupidaggini dette, ridendo e rallegrandoci insieme. Non ti scoraggiare,
padre, Non sono le cose peggiori!
La mia prima malaria
Arrivato in Mozambico, vengo ospitato dal vescovo di Nakala. Per due mesi partecipo al ritmo di vita del presule seguendolo nelle sue visite pastorali.
Monsignor Grachiane è contento perchè deve visitare una delle missioni più lontane e più importanti della diocesi.
Non può viaggiare da solo e porta con lui il padre appena arrivato,io, e la nipote arrivata dalla capitale in vacanza.
Nella land rover diretta ad Alua siede alla guida il vescovo, io vicino allo sportello ed in mezzo la nipote che discute animatamente con lo zio.
Parlano di tutto, soffermandosi su dettagli della loro famiglia. I trecento chilometri di distanza fra Nacala e Alua con le sei ore di viaggio, danno ai due il tempo di esprimere le loro opinioni , a volte concordanti, spesso in contrasto. Io non capisco i particolari ,tuttavia m'incuriosisce lo stile della discussione. La giovane mette in evidenza che la sua famiglia non gode di particolari benefici da parte dello zio e che a casa non si gode di una vita diversa da quella di tante altre famiglie benestanti.
Dopo due ore di viaggio inizio a sentirmi strano. I discorsi, le persone, il paesaggio non m'incuriosiscono più anzi mi danno fastidio. Il chiacchierio della giovane diventa sempre più pesante e la sua mole, di oltre 90 chili, mi schiaccia
rendendomi immobile. L'asfalto della strada è ormai un ricordo ed è stato sostituito da numerose buche di ogni dimensione, forma e profondità, rendendo il viaggio ancora più difficoltoso.
Nelle curve e nelle buche i salti della macchina mi buttano addosso la giovane. Con pazienza devo attendere la curva contraria per liberarmi dall'enorme mole che mi opprime e sentire così un pò di sollievo. Per un senso di rispetto non oso parlare, nè muovermi e ancor meno lamentarmi.
Una stranezza mai provata nel mio corpo mi rende nervoso . Non conosco i sintomi nè gli effetti della malaria, di conseguenza non penso ad essa.
In lontananza vedo un gruppo di case e penso d'esser arrivato alla ma non è così,ancora devo attendere. La mia testa non regge, mi viene il capogiro e, a causa delle vertigini, mi sembra di sprofondare nella terra.Non capisco come la macchina possa camminare in quella fosssa ed io cadere da essa senza provocarmi alcuna ferita.
In quale strano mondo sono precipitato?
Finalmente dopo ore di viaggio, diventati per me giorni e mesi, arriviamo nella grande e antica missione di Alue.
Nella piazza antistante la casa della missione stanno ad accoglierci un padre camboniano ed alcune suore dello stesso ordine. I padroni di casa salutano il vescovo e noi. Il prelato presenta la nipote poi me come ultimo acquisto missionario della diocesi di Nakala. La suora infermiera mi saluta e chiede informazioni sul mio stato di salute. " il padre è taciturno, durante il viaggio non ha proferito parola" commenta il vescovo.
Mi sento strano e più volte mi sembrava di dover vomitare "non sono abituato a queste lunghe distanze" spiego io. La suora sorride e in modo parentorio sentenzia " Ill padre ha la malaria, è preferibile che vada a riposare nella sua stanza, dopo pranzo inizieremo il trattamento" Io ubbidisco, per potermi godere dieci minuti d'isolamento......
In refettorio siamo tutti puntuali. Il pranzo di gran lusso è pronto. Il posto del vescovo è a capotavola, alla sua sinistra mi siedo io e di seguito i missionari.Alla destra del prelato siede la nipote, proprio di fronte a me e poi le suore.
Quale tormento vedere il volto di quella giovane! la mia fantasia galoppa producendo interrogativi a non finire. Perchè è venuta con noi? perchè non è rimasta in episcopio a vigilare la casa? Cosa deve controllare? Perchè è seduta di fronte a me così da impedirmi di sollevare lo sguardo?
In mezzo a quell'assemblea di missionari non ha più niente da dire e occupa il tempo nel mangiare avidamente quanto le viene presentato. Il vescovo risponde a tutte le domande che gli vengono rivolte e aggiorna i missionari sulla situazione della diocesi e su quella nazionale. Quando il prelato si ricorda di tacere , i confratelli e le suore si compiacciono con me per il buon "battesimo missionario"( la malaria)" Non aver paura, con il tempo sarà di casa e dovrai dominarla!"commentano le suore e i preti.
Arrivati al secondo piatto , l'infermiera, insieme alla pietanza mi presenta quattro clorichine e due aspirine avvisandomi" prendile quando vuoi, durante o dopo il pranzo, tutte insieme o separate, l'importante è non masticarle perchè sono molto amare.!"Io capisco il contrario e due alla volta, assumo le pastiglie masticandoole attentamente. La suora aveva ragione, quelle pastiglie sono più amare del fiele. Il sapore rassomiglia alle foglie della pianta del carciofo ma con un'intensità di gran lunga superiore. Non capisco il motivo di doverle masticare bene, forse per guarire prima, penso io.
Finalmente arriva la fine del pranzo col caffè e il digestivo. Con grande meraviglia di tutti, l'infermiera mi presenta mezzo bicchiere di "stock84"
"bevi e subito vai a letto, ti aiuterà a dormire bene perchè le medicine che hai preso, non sono antibiotici.
Vado in camera e dormo. Sogni strani, agitati e divertenti ,contorti pieni di pericolo invadono il sonno Mi sveglio ogni mezz'ora e subito mi riaddormento.
Il vescovo inizia e porta a termine la visita pastorale cresimando oltre seicento persone, uomini, donne, vecchi e giovani.
Dopo tre giorni di degenza passa la malaria ed io riprendo le mia forze e la serenità in modo quasi automatico, come se niente mi fosse capitato. Quella malaria terribile e spesso mortale nel nostro dopo guerra, lasciando perplessi al solo nominarla, ha lasciato in me una grande delusione. Il primo pensiero che mi arriva alla mente è " se la malaria è questa, posso prenderla anche tutti i mesi", sfidando la situazione e ignaro di quanto mi sarebbe successo negli anni successivi
Non essendo più disponibile alla vendita per la raccolta "fondi" a favore del Mozambico
riscriverò ciascuna pagina per i miei lettori
Introduzione
Questi scritti sono tratti dai racconti nella missione di Kavà -
memba al nord del Mozambico dove mi hanno visitato 80 volontari i quali
mi sono stati di grandissimo aiuto per il ripristino di un'antica missione totalmente distrutta dalla furia della guerra
Don Ottavio rivolge loro un saluto riconoscente ed affettuoso, assicura che conserva nella memoria ogni loro gesto e conversazione.
L'idea di scrivere qualcosa sulla malaria di chi è passato nella missione di Kavà-memba gliela diede Pier Carlo, un volontario grande amico, don Ottavio ha accettato l'idea unicamente per ridere ricordando alcuni momenti divertenti , un pò drammatici , un pò comici. Conoscendo che non tutti amano sentirsi raccontare in momenti che non ricordano ,nè possono ricordare , non volendo offendere alcuno, ha cambiato il nome dei personaggi, solo il suo è vero.
Racconta don Ottavio
al momento degli avvenimenti la normale malaria si curava con la "clorochina"Questo è un farmaco allucinogeno e come tale produce tuttii gli effetti propri. Molte cose le si ricordano, di altre non si è consapevoli poichè avvengono sotto l'effetto del farmaco o il delirio della febbre.
E' interessante sperimentare come si passa da uno stato di assoluta depressione durante la malattia a uno di normale benessere subito dopo la cura, come se niente fosse accaduto.
Anche per questo non si capisce come si possa essere stati oggetto e soggetto di atti e parole curiose.
Tutti, seguendo le indicazioni dei medici, prima di mettersi in viaggio iniziano la cura preventiva.
Introduzione
Questi racconti sono tratti dai quindici anni
trascorsi nella missione di Kavà-Memba al nord del Mozambico dove mi hanno
visitato 80 volontari i quali mi sono stati di grandissimo aiuto per il
ripristino di un’ antica missione totalmente distrutta dalla furia della
guerra. Mi è caro rivolgere a ciascuno di loro un saluto riconoscente e
affettuoso. Voglio assicurare loro che tengo presente nella memoria ogni loro
gesto e conversazione. Per loro conservo nella preghiera un posto speciale.
L'idea di scrivere qualcosa sulla malaria di chi è passato nella
missione di Kavà-Memba me la diede Pier Carlo, un volontario nostro grande
amico. Ho accettato l’idea unicamente per ridere e per non dimenticare alcuni
momenti divertenti, un po’ drammatici e un po’ comici, della vita missionaria.
Conoscendo che non tutti amano sentirsi raccontare in momenti che non
ricordano, né possono ricordare, e non volendo offendere nessuno, ho cambiato i
nomi dei personaggi. Solo il mio nome corrisponde a verità. Chi ha esperienza della malaria sa che
durante la malattia la persona non si riconosce e cambia la propria
sensibilità, i modi di vedere e giudicare.
Al
momento degli avvenimenti la normale malaria si curava con la clorochina.
Questo é un farmaco allucinogeno e come tale produce tutti gli effetti propri.
Molte cose le si ricordano, di altre non si é consapevoli poiché avvengono
sotto l'effetto del farmaco o il delirio della febbre. E' interessante
sperimentare come si passa da uno stato di assoluta depressione durante la
malattia a uno di normale benessere subito dopo la cura, come se niente fosse
accaduto. Anche per questo non si capisce come si possa essere stati oggetto e soggetto di atti
e parole curiose.
Tutti, seguendo le indicazioni dei medici, prima di mettersi in viaggio,
iniziano la cura preventiva,
assoggettandosi a proseguire la prevenzione per alcuni mesi dopo il
soggiorno. Per me e per chi ha esperienza diretta di malaria, la prevenzione é
solo un palliativo che serve a illudersi che, se dovesse arrivare la malattia,
questa sarà in forma più leggera. Se si esclude la malaria celebrarle, cosa
possibile ma non comune, non vedo cosa può essere più forte di una febbre oltre
i quaranta gradi, che porta a vaneggiare, a essere ridotti alla immobilità e
incapaci di ogni cosa. Tuttavia, così è l'idea comune, e così sia.
Ogni
volta che parlo di malaria mi sento fare questa domanda: “I neri prendono la
malaria e quali sono le loro reazioni quando si ammalano?” Per rispondere a
questa curiosità ho inserito la
testimonianza di alcuni di loro. Dico subito che neppure i neri ne sono esenti.
Sono numerosi coloro che muoiono in tenerissima età per causa di malaria
cerebrale o non curata. Le persone che noi incontriamo sono i sopravvissuti non
solo alle punture della zanzara ma anche ad altre situazioni igienico-sanitarie
e ambientali, rendendoli immuni o resistenti a malattie per noi serie o
addirittura mortali. Tuttavia mi sembra bene ridimensionare anche l’idea della
loro immunità a quei virus che per noi sono fatali. Si consideri solo il
fatto che nei paesi abbandonati a se stessi in situazioni
igienico sanitari meno che indecenti senza speranza di migliorare e quindi in
aree certamente malariche, l’aspettativa della vita é bassissima. Nel caso
specifico l’aspettativa di vita è sui
35-40 anni. Sono rari quelli che arrivano a 75-80 anni. Questi sono i monumenti
della tribù e del villaggio.
Non
mi stanco di ricordare che lo scopo dei presenti racconti é solo quello di trascorrere un minuto in
allegria, vivendo insieme sprazzi ameni di vita missionaria. La missione è
anche questa!! Auguri e buon divertimento.
Don
Ottavio Cossu
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