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martedì 23 maggio 2017
Vita in un angolo d'Africa....
Scrive don Ottavio....
A metà del mio quarto mandato missionario nella parrocchia di Kavà, nella diocesi di Nakala, al Nord del Mozambico
penso fare cosa gradita e utile raccontare alcuni episodi significativi vissuti da questa gente e da me personalmente. Dieci anni non sono molti per conoscere in profondità un popolo tanto differente dal nostro ma credo siano sufficienti per capirne le dinamiche e i desideri, specie quando si vive quotidianamente nella loro stessa casa. Gli episodi che presento li ho raccolti dalla viva voce dei protagonisti senza aggiungere nulla. Non sono, quindi, cose inventate per suscitare compassione in chi legge, ma sprazzi di vita comune sofferta e sopportata ora con passiva rassegnazione , ora con imponente rabbia.
Si noterà come il relazionarsi delle persone sia improntato a paura e diffidenza ma, anche, al perdono con una lontana e incerta speranza.
la mappa della diocesi
In mezzo a questo popolo ho fatto le esperienze più diverse. Nella veste di padre missionario sono considerato "potente" non solo per la Fede che porto ma specialmente economicamente.
Alle volte vengo seguito, sfruttato, sempre avvicinato per un interesse personale. A contatto con nuove realtà, ho dovuto abbandonare le mie logiche che altrove mi rendevano sicuro per entrare nelle loro logiche apparentemente contradditorie e irrazionali ma, al loro interno, coerenti e rigide.
Ho dovuto accettare il loro procedere lento ed estenuante ma anche liberatorio dalla frenesia di un mondo costruito dalla tecnologia per pensare all'essenzialità della vita.
Adesso mi chiedo cosa sia l'indispensabile e se io ancora possa avere delle particolari esigenze.
Il popolo è preoccupato unicamente di risolvere il problema del fabbisogno momentaneo al di là di ogni regole e, spesso, da ogni morale o progetto di vita Dopo un pò di tempo si deve abbandonare l'idea che il mondo sia quello economicamente evoluto, che tutti gli uomini rincorrono il benessere, che le persone che valgono siano quelle che camminano nella nostra direzione.
Qui si è obbligati a constatare che gli intelligenti non sono necessariamente quelli che conoscono tutto del computer ma coloro che guadagnano momento dopo momento la propria vita, sperando faticosamente di poter vivere e non di poter vivere bene.
Siamo in un altro mondo che niente ha in comune con il nostro se non le aspirazioni naturali che il Buon Dio, Padre di tutti ha messo in ogni cuore umano . Aspirazioni, scoperte valorizzate e vissute in modo totalmente diverso...
domenica 14 maggio 2017
Ricordi ... La madre
Amihabar è uno dei tanti ragazzi rapiti durante la guerra Frelimo-Renamo,
educati alla lotta in prima linea. Dopo nove anni trascorsi nelle prime file di
combattimento ora si è formato una sua famiglia e accetta con paura di
raccontare qualcosa del suo passato. Mi siede accanto e, con lo sguardo fisso a guardare la chioma
degli immensi alberi di mango, inizia il racconto.
La Madre che le racconto è
una donna avanti negli anni col volto pieno di rughe. I vestiti a brandelli e
sporchi lasciano intravvedere nel corpo molte cicatrici, segni evidenti di un
corpo martoriato che conosce la passione della guerra. Entra nella zona dell’accampamento
militare, interdetta ai semplici civili e autorizzata solo alle ‘sentinelle’
(donne, queste, scelte per raccogliere all’esterno le notizie e portarle nel
campo). Avanza con passo lento ma
deciso, il suo volto non lascia trasparire nessuna paura, al contrario, si può
leggere la consapevolezza di ciò che può accadere. Nessuno può violare quei
limiti, pena la morte. Lei riesce
a evadere le sorveglianze e si ferma nel mezzo del mistero di quel territorio. L’amore, la
rabbia, la volontà di conoscere superano ogni ostacolo e vincono ogni
paura. Quando arriva sembra che non ci sia nessuno ma subito si avvicinano dei giovani che la scorgono a distanza, poi se ne
aggiungono altri, tutti ben armati e circondano la donna. La vecchia non cambia
aspetto, anzi, la padronanza di sé fa capire che ha raggiunto ciò che desidera.
Arriva anche il comandante incuriosito per il via vai dei soldati e si mette accanto al gruppo.
La donna non apre bocca. La sua
presenza parla molto più delle parole: interroga, risponde, esamina, condanna e
mai assolve. Il silenzio della donna é contrapposto al continuo vociare dei
militi: “Uccidila, aspetta, uccidila subito, chiedi prima cosa vuole, questo
non importa ha violato le regole, non la conosci, forse porta delle novità, ti
dico di ucciderla subito, cosa te ne fai di una donna vecchia e senza forze?”.
Ogni soldato dice la sua e nessuno osa toccarla. Lei è lì come un monumento di pietra, ammirata per il coraggio e
disprezzata per la sconfitta inflitta alle guardie. Mai nessuno è riuscito ad arrivare fin lì, tutti si
chiedono come abbia fatto. Le guardie di turno non parlano, smarriti aspettano
solo la loro morte perché così accade in quel campo in situazioni del genere.
Il comandante intima il silenzio e inizia l’interrogatorio: “Chi sei e
da dove vieni?” La donna non risponde nulla, non trema, guarda fissa la terra
senza batter ciglia. Il comandante deve ripetere più volte la stessa domanda
con un certo nervosismo che aumenta con gli attimi che passano: ”Chi ti ha
mandato? Quali notizie porti?”. La donna non cambia aspetto, non proferisce
parola, non guarda in faccia a nessuno, vive nel suo mondo, aspettando il
momento per esprimere il suo dolore.
I soldati non capiscono cosa stia
succedendo. La presenza di quella vecchietta, la curiosità e la pazienza del
superiore sono cose del tutto inconsuete. Il comandante vuole sapere, non
riesce a capire e ancor meno a sbloccare la situazione. Si adira con le guardie
e con tutti i soldati coprendoli d’insulti, minacciandoli di morte. Alla fine, l’ufficiale con fare deciso e l’arma puntata in direzione
della donna dice: ”Chi sei e da dove vieni?”. In quegli attimi che precedono la risposta un silenzio
di tomba s’impadronisce dell’ambiente. Istintivamente i soldati allargano la
cerchia, presaghi di ciò che sta per capitare. “Poco importa chi sono e da dove
vengo, chiedimi piuttosto cosa voglio”, risponde con una calma impressionante
la povera donna, sicura della sua fine. “Se questo è il tuo ultimo desiderio
dici subito cosa vuoi, prima che ti scarichi addosso quest’arma”, replica il
comandante pieno di rabbia per l’ostinazione e l’ardire della vecchietta. “Devi
sapere che mai nessuno ha osato tanto senza morire”, aggiunge l’ufficiale.
La donna solleva lo sguardo e, fissando il comandante negli occhi,
inizia: “Avevo una casa e una famiglia, avete ucciso mio marito e una figlia
davanti ai miei occhi, mi avete rapito due figli, mi avete devastato …….”.
“Basta donna”, interrompe bruscamente il superiore, “non
siamo qui per sentire le tue storielle, non approfittare della mia pazienza,
dimmi cosa vuoi senza altri raggiri”. La donna, fissando gli occhi del
comandante, continua con voce ferma: “Nella campagna ho trovato la testa di mio
figlio, dimmi dove avete messo il resto del suo corpo, io andrò a prenderlo. Perché
l’avete fatto?”. L’ufficiale pensa per un attimo, la
scruta più volte dall’alto in basso, poi con cinica indifferenza dice: “Se vuoi
andare da tuo figlio ti mando subito, in questo modo incontrerai anche gli altri”. Così dicendo le scarica addosso
l’arma. “ Buttatela da qualche parte”, ordina ai soldati mentre si allontana.
I militi non osano toccare
quel corpo, pietrificati dalla repentina decisione del comandante. Ora quel
corpo fa tenerezza. I soldati non ricordano più il volto della propria madre e il
fatto richiama il desiderio di incontrarla e conoscerla. Loro hanno dimenticato
famiglia e conoscenti, quella madre non ha dimentica i suoi figli; La madre li
aveva educati alla vita, altri
alla morte; loro cresciuti per
uccidere e odiare, quella madre vuole incontrare almeno il cadavere del figlio
che ha generato per baciarlo e stringerlo a sé prima di dargli una qualche
sepoltura.
L’episodio riporta i
soldati alla loro dimensione umana e familiare e pone l’interrogativo sul perché della guerra. Per
alcuni giorni questi pensieri dominano la mente e i discorsi dei soldati. Devono
parlarne di nascosto, lontano dai superiori perché nel campo non sono ammessi sentimentalismi o ricordi familiari.
L’unico argomento lecito é la guerra e come assalire il nemico, il resto è
inutile e dannoso. Il ricordo del passato provoca nostalgia e trasforma i
soldati in femminucce senza valore né carattere.
Rientrati alla realtà dei fatti prendono quel corpo sporco di polvere e
inzuppato di sangue e lo trascinano fuori del campo. Un soldato vuole
abbandonarlo nella campagna, dove gli animali lo avrebbero divorato, gli altri
scavano una fossa non molto distante dalla strada e lo seppelliscono. Uno di
loro spezza un ramo da un albero di mango e lo pianta vicino al sepolcro come
segno della presenza di qualcuno.
Quest’ultimo soldato in particolare perde la serenità, pensando a quella vecchietta tanto
coraggiosa. Non riesce a spiegarsi cosa sia accaduto in sé con la morte della donna. Non è la prima
volta che vede persone morte e lui stesso ne ha ucciso per necessità e per
divertirsi ma ora quel volto si è impresso nella sua mente e, forse, nel suo
cuore. Non ne parla con nessuno, ha paura e vergogna. Tiene per sé quella
ferita e, cosa strana, non desidera che si margini anzi, quasi gli piace. Non vuole
togliere quella spada dalla ferita dove ha trovato spazio un pensiero sempre
più prepotente, dolce e crudele allo stesso tempo, tanto crudele che non esiste
il peggiore:
E se quella disgraziata fosse sua madre?
Istintivamente e di
nascosto si reca da quel ramo che custodisce il suo segreto, lo guarda, lo
riguarda, gli gira attorno, non ha più lacrime ma sente lo spasimo nel cuore,
poi rientra nell’accampamento. Quella pace crudele alla quale lo ha educato la
guerra è scomparsa, dando spazio a
un’altra guerra molto più feroce di quella che vive: la guerra della coscienza.
Quella donna non si allontana un attimo dalla sua mente e dal suo cuore. Il
giovane vorrebbe parlarne con qualcuno per alleggerire il peso
ma non può farlo. Nessuno capirebbe e lui diventerebbe lo zimbello
del gruppo.
Nei suoi pochissimi ricordi il volto scheletrico della poveraccia non è nuovo. Lui, ancora molto giovane, era
stato rapito quando suo padre e sua sorella vennero uccisi ai suoi piedi. Senza
motivo, senza chiedere o negare nulla. Alcuni sconosciuti avevano scaricato
addosso ai suoi familiari le loro armi, proprio come ha fatto il suo comandante.
Con lui era stato portato via un suo fratello mai più visto e del quale non
ricorda il nome e neanche le
sembianze. Fu proprio quell’episodio che lo aveva trasformato in un ragazzo
soldato spietato, cinico verso tutti e tutti diventarono automaticamente nemici da eliminare, gente senza
valore. Ora si diverte nel vedere qualcuno soffrire, è contento quando altri muoiono,
perché anche suo padre e sua sorella erano stati uccisi senza una ragione. Non
ricorda i loro volti, non ricorda il luogo della tragedia tuttavia desidera vendicarli il più
possibile.
Le poche parole
pronunciate da quella intrusa si sono annidate nel cuore del soldato,
suscitando un senso di pietà e non di vendetta. Anche questo lo preoccupa.
Senza volerlo si sente più umano. In quel lontano giorno tutta la famiglia era stata distrutta e dispersa, ora quella
coraggiosa poveraccia gira ovunque, nelle campagne e nei villaggi, alla ricerca
dei figli per riaverli ancora e rigenerarli a vita nuova.
All’improvviso il soldato che si pensava maledetto riscopre l’amore, il desiderio
della famiglia e una idea incontenibile occupata la sua mente: Scappare da quell’inferno.
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