giovedì 22 febbraio 2018

E' morto don Ottavio Cossu, missionario in Africa...


Cronaca di Gallura
(Claudio Ronchi) – La sua morte risale a qualche giorno fa, a Mercoledì delle Ceneri del 14 febbraio, inizio di Quaresima. Ed è avvenuta nel 45º anniversario di sacerdozio, a Viddalba, dopo aver celebrato messa. Don Ottavio Cossu era nato proprio a Viddalba, nella bassa valle del Coghinas, il 16  marzo del 1946 ed era stato ordinato sacerdote nel suo paese natale, il 7 luglio 1973, dal vescovo Carlo Urru.
“Ho svolto il mio ministero pastorale nelle parrocchie di Nulvi, Tempio, San Pasquale, Martis e nell’ospedale di Olbia”, aveva scritto in una sua breve autobiografia don Ottavio. “Successivamente ho continuato il mio operato per 15 anni, come missionario ‘fidei donum’ in Mozambico nelle diocesi di Nakala Porto, ove ho svolto attività di evangelizzazione e di concreto aiuto al popolo Makua, al nord del paese, una delle zone più martoriate della storia contemporanea, appena uscita da una guerra devastante e vittima di una colonizzazione portoghese schiavista conclusasi da pochi decenni”.
Don Ottavio Cossu era rientrato dall’Africa nel 2010 assumendo successivamente, in diocesi, vari incarichi. È stato legato a La Maddalena sia come insegnante che come missionario. Per molti anni infatti ha insegnato Religione all’Istituto Magistrale, nel periodo in cui è stato parroco di San Pasquale. E poi per le molte volte è tornato all’Isola, quando era missionario in Mozambico, per cercare qui, come in altre parti della Gallura, fondi per la sua missione. Vi andò, in Africa, come missionario della Diocesi di Tempio-Ampurias, autorizzato dal vescovo francescano Paolo Atzei, il quale non poté ulteriormente rinviare la pressante richiesta del piccolo sacerdote anglonese.
A Memba, sede della sua missione, è stato visitato negli anni dallo stesso vescovo Atzei e da alcuni sacerdoti tra i quali don Domenico Degortes e don Gianni Sini, responsabile diocesano per le missioni. Da don Cossu, in Africa, si sono avvicendati anche una sessantina di volontari laici, provenienti da diversi paesi della Gallura e dell’Anglona, i quali hanno lì prestato la loro opera ed aiuto per periodi di tempo più o meno lunghi. Alcuni vi si sono recati più volte.
Da La Maddalena sono andati da don Cossu, nella sua missione in Africa: Pier Carlo Acciaro, Tonino Canu, Nunzio Del Bene, Gianna Deiana. Per lunghi periodi e per molti anni è stato suo stretto collaboratore in Africa il poeta Pier Carlo Acciaro.  La Missione ha ricevuto ingenti aiuti dai gruppi missionari diocesani come anche dal Gruppo Missioni di S.M.Maddalena coordinato da Anna Maria Gaspa.


mercoledì 21 febbraio 2018

In ricordo di don Ottavio

Parlare di don Ottavio, raccontare il suo essere sempre e comunque un "missionario" che praticava "il Verbo" fatto uomo in ogni sua azione mi è doveroso.
Io, Mariantonietta, malata di Parkinson, ho avuto la "grazia di conoscerlo.
Semplice, diretto, calmo, ironico.
Forte della sua "Fede" ha camminato sui percorsi più disagiati della vita, ha operato, coinvolgendo volontari,  su quelle strade dove gli stessi uomini avevano piantato spine dolorose...HO avuto la fortuna di ascoltarlo...

CRONACA OLBIA14 FEBBRAIO 2018
Olbia. Morto l’ex cappellano del San Giovanni di Dio
Un ricordo indelebile ANGELA DEIANA GALIBERTI



Olbia, 14 febbraio 2018 – Don Ottavio Cossu, storico cappellanodell’Ospedale San Giovanni di Dio di Olbia, è morto a 72 anni. Ieri mattina, dopo aver celebrato messa a Viddalba – suo paese di origine, è stato colpito un infarto mentre si trovava in casa.
Don Cossu ha lasciato un bel ricordo in ogni paese in cui ha esercitato la sua missione cristiana: oltre ad essere stato cappellano del primo ospedale olbiese e vice parroco nella Cattedrale di Tempio, per anni ha vissuto in Africa – precisamente in Mozambico – dove ha cercato di dare sollievo cristiano e materiale ai bisognosi.
Tante le opere di bene fatte dal sacerdote sardo, tra cui la costruzione di scuole e pozzi, ma anche dare il via al microcredito agricolo nella missione di Kavà e l’avvio di una cooperativa per la lavorazione della ceramica nella parrocchia di Kisangara Juu.
Profondo conoscitore della realtà africana, don Cossu – una volta tornato in Sardegna – ha continuato ad ascoltare la sua vocazione missionaria, senza mai smettere di raccontare l’Africa: quella vera, quella che lui ha toccato con mano.
In un blog, don Cossu racconta le vicende africane delle missioni da lui visitate: un racconto che si ferma il 6 gennaio 2018 con l’ultimo post dedicato ai serpenti (animali molto diffusi nel continente africano, come sottolinea lo stesso Cossu).
Nel post dedicato a sé stesso, in cui racconta chi è e cosa ha fatto nella sua vita, don Cossu descrive il suo primo incontro con il popolo makua, reduce da una guerra senza fine: “Reduce da una guerra trentennale, il popolo Makua sembra non sia capace di progettare, né di pensare al proprio futuro. Indifeso, senza giustizia, né governo, nelle mani di chi ha soldi e prepotenza, sempre pronto al furto e alla menzogna per sopravvivere. In questa gente ho trovato un cuore grande e buono, che illumina il volto di luce, affascina, conquista, e trascina chi ha il cuore semplice e desideroso degli altri. Quei fratelli non hanno medicine per curarsi, né ospedali dove ricoverarsi. L’acqua sporca che sono costretti a bere, le condizioni igieniche dove vivono provocano malattie e morte. La buona volontà dei giovani non è sorretta dai mezzi e la sete d’imparare non trova maestri che l’appaghino“.
Al rientro in Sardegna ha anche fondato un’associazione: Noi una famiglia. L’associazione è formata da “volontari che condividono il suo ideale di dedizione agli altri per una crescita umanitaria, sociale e spirituale della persona nel suo ambiente  naturale“.




giovedì 15 febbraio 2018

Non un addio ma un ciao...

Carissimi fellower di questo blog
don Ottavio è venuto a mancare...
continuerò da sola quel cammino di narrare il  vissuto da missionario in terra sua e in terra d'Africa.
Il suo operato dedito ai poveri, agli umili...agli ultimi, impreziosito da un silente e costante impegno, canta al cielo la purezza del suo cuore nel donarsi al Signore.

Una delle sue ultime pagine che ci ha lasciato

Aiutare le persone
Si sa che la guerra porta con sé ogni tipo di male. Uno  dei tanti è la diffidenza. Quando questa è  accompagnata all’invidia sono poche le speranze di salvarsi. Si rimane con i propri problemi , si diventa ciechi e incapaci di giudizio anche quando tutto è chiaro e positivo.  In questi  casi é compito del missionario andare incontro alle persone, creare opportunità di riscatto ed essere sempre positivi, anche quando tutt’intorno porta in altra direzione. Ovunque la guerra lascia mutilazioni di ogni tipo: persone con una sola gamba, giovani con un braccio, bambini con malattie mentali, uomini e donne con paralisi deformanti. Ovunque domina la sporcizia  e l’assuefazione a essa.
Per alleviare simili mali  é indetta una campagna di sensibilizzazione promossa da una organizzazione italiana in favore di persone  mutilati negli arti. Si tratta di presentarsi all’ospedale di Namahaca per una visita preliminare e in seguito andare all’ospedale di Nampula per l’applicazione della protesi. Tutto è gratis: viaggi, visite, assistenza e controlli successivi. Come per le vaccinazioni  o altri aiuti al centro di raccolta si attende grande afflusso di malati. Si apre la campagna ma non si presenta nessuno, nonostante circolino molti bisognosi. Si intraprende una seconda sensibilizzazione capillare in modo personale in tutta la zona. L’iniziativa abbraccia anche la missione di Kavà.   
Io interpello un giovane e un anziano. Il primo è Mauricio, frequenta assiduamente la comunità cristiana di Muipia. Con  ardore  si prepara per il battesimo e il matrimonio. A lui manca metà della gamba sinistra che si era dovuta amputare a causa del morso di un serpente quando, ancora bambino, fuggiva per salvarsi dai guerriglieri. Mauricio è rispettato da tutti e l’intera comunità lo apprezza per il coraggio e la forza che mostra nel lavoro. Il giovane accetta la proposta con entusiasmo. Sogna di dover correre come un tempo senza portare appresso bastoni o altro. Una cosa lo preoccupa: non sa come incollare il pezzo mancante all’arto esistente. Gli sono spiegate le  norme del caso.  Il giovane chiede alcuni giorni di tempo per riflettere e avvisare la fidanzata che abita lontano. Mauricio va a Chipene, dove dimora la  ragazza e non fa più ritorno  a Muipia. Agli amici confida che non ritornerà più nel villaggio finché ci sarà “quel Padre”. Il giovane ha paura di portare con sé una cosa che non gli appartiene (la protesi). Il bastone che  ha sempre fra le mani ormai fa parte della sua persona e non lo può abbandonare. Incontrando il missionario è obbligato a dare spiegazione e lui non vuole rivelare il suo segreto. Il giovane, lontano dalla sua comunità si forma la famiglia e nessuno gli parlerà mai più dell’arto mancante.
Al secondo interpellato mancano la gamba e il ginocchio sinistro. Abilio, questo è il nome del signore in questione, è un animista sui cinquant’anni. Durante la guerra, in una colluttazione col nemico lo  feriscono gravemente a una gamba con coltelli e altro. Lui  cura la profonda e pericolosa ferita con radici e medicine tradizionali e la gamba sembra guarita. Benché con atroci dolori lui vive tranquillo finché la ferita va in cancrena. All’ospedale militare per salvargli la vita    sono costretti ad amputare la gamba e poi lo mandano a casa. Abilio non ha mai capito il motivo per cui gli abbiano salvato la vita poiché in casi simili il ferito era subito eliminato. In seguito il soldato si sposa alcune volte e  ha dei figli. Le mogli lo licenziano dopo il primo o il secondo parto con la motivazione che non lavora abbastanza.  Abilio, stanco di cercare mogli, ora vive solo.  I figli, ammogliati e  con figli anche loro, vivono nei villaggi vicini e solo saltuariamente visitano il padre. Le molte vicende della vita lo rendono diffidente e orgoglioso. Difficilmente si lascia aiutare. Cammina con un bastone che serve anche come autodifesa quando i ragazzi si giocano di lui. In particolare ci sono alcuni  ragazzotti i quali gli girano attorno imitando il suo modo     di camminare zoppicante. Lui si adira moltissimo e, sollevando per aria  il bastone,  augura loro ogni sorta di disgrazia.  Non ammette scherzi sulla sua anomalia. 

Quando  é convocato dal missionario si meraviglia che qualcuno si interessi a lui. Curioso si presenta subito nella missione. Gli parlo della campagna in corso per avere gratis  la protesi che lo renderebbe libero di camminare senza il bastone. Come Mauricio non capisce   cosa sia l’attrezzo che dovrebbe incollare alla sua gamba. Abituato oramai al bastone non sa come lo possa abbandonare.  Nonostante i dubbi l’uomo si mostra contento e già s’immagina camminando come un tempo. Per fugare ogni difficoltà ripeto più volte   che non c’è nulla da pagare, che sarà assistito in tutto e che sarà accompagnato in ogni trasferta.  Lui deve dare la sua autorizzazione e all’ospedale firmare un foglio per garantire il consenso. Abilio pensa per un attimo, osserva il mio volto, poi dice: “Quanto mi dà?” “Perché mi chiedi questo?”, rispondo io, “ti do la possibilità di camminare bene come tutti gli altri, non ti basta?”. “Padre”, replica lui, “se mi ha convocato significa che lei guadagna dalla mia gamba e io voglio la mia parte”. Mentre parla stende la mano aperta verso di me con un sorriso malizioso. Spiego nuovamente il significato di quella campagna, assicuro la gratuità assoluta da parte di tutti e che io non guadagno nulla.  A niente vale il mio discorso. L’uomo  si allontana per vivere col suo bastone.

mariantonietta

sabato 6 gennaio 2018

I serpenti...esperienza diretta..


Tutta l’Africa è disseminata di serpenti di ogni misura e pericolosità. Ci sono serpenti piccoli che danno pochi minuti di vita alla preda che morde. Ci sono i serpenti di due o tre metri i quali   sono pericolosi non perché mordono ma perché avvolgono la preda e la stritolano. C’è anche un serpente verde innocuo lungo circa  trenta centimetri. Tutti si possono incontrare ovunque, per le strade, nei campi e all’interno di una abitazione. Preferiscono i luoghi bui, sotto le foglie e in mezzo ai rami. Strano ma vero, c’è qualche serpente che può mordere anche dopo morto e il suo morso è mortale. L’udito e la vista degli indigeni scorgono di lontano la presenza di esseri che si muovono in terra o sugli alberi.  Con una pietra o un bastone anche i  ragazzi riescono a difendersi bene. Sentiamo.
Nel pollaio
Si sente rumore inconsueto nel pollaio, le galline si ritirano spaventate in un angolo, poi silenzio. Passa qualche minuto ed è calma assoluta. Le guardie notturne si scaldano al fuoco acceso   per segnalare la presenza di qualcuno. Una guardia si alza improvvisamente e indica a distanza di alcuni metri qualcosa che striscia. Il cobra, lasciato il pollaio, si dirige  verso la campagna. Le guardie si alzano in piedi  e impugnano il machete e la lancia. L’animale aumenta la velocità ma è raggiunto da una lancia che si conficca nella testa, bloccandolo a terra.  La guardia si avvicina e assicura bene la lancia in terra per  fermare la preda, poi tutti si siedono vicino al fuoco. Il rettile è lungo due metri e ottanta centimetri ed è grosso abbastanza da ingoiare uno di loro senza alcuna difficoltà.  Con i primi bagliori della luce gli uomini controllano il bottino e osservano che il serpente, dimenandosi dalla stretta della lancia  si svincola dall’arma ma non riesce ad allontanarsi di molti metri. Nel preparare il serpente per la padella, questo tipo di serpente è combustibile, le guardie trovano nel suo interno una gallina ingoiata nel pollaio. Gli operai fortunati commentano ridendo: “Guardi, padre, forse aveva fretta o è stato disturbato, l’ha ingoiata  così come l’ha trovata: sporca e con le penne”.
Sui piedi
Sono seduto alla porta della cucina e scrivo con i fogli e un libro appoggiati su una sedia che mi fa da scrivania. Ai piedi porto le ciabatte facilmente accantonabili quando si è seduti. Mi esercito nella lettura e scrittura del portoghese che ancora porta molta fuliggine nella mia mente.  Isolato dal resto del mondo  odo solamente lo sbattere delle onde sugli scogli a pochi metri di distanza. Avvolto dalla solitudine dell’ambiente e immerso nella lettura, sento sui piedi un fresco fuori stagione e qualcosa che scorre. E’ un fresco gradevole per cui, impassibile,  permetto a ciò che dà sollievo faccia il suo corso.   Con la coda dell’occhio scorgo sulla mia sinistra   un serpente di circa  venticinque centimetri allontanarsi. Mi alzo per seguirlo mentre  striscia ma è già scomparso nella sterpaglia. La sensazione di fresco è piacevole così com’ è grande il pericolo corso. I ragazzi mi dicono che se mi avesse morsicato quel tipo di serpente mi avrebbe lasciato poche ore di vita. Ringraziamo la Madonna dello scampato pericolo.
Uscito dalla cunetta
Rientro da Nampula nel primo pomeriggio nella Land Rover Defender vecchio tipo. La macchina è forte, alta, stile camioncino. Viaggia con me un giovane indigeno che mi ha guidato nelle vie della città. La strada è sterrata ma abbastanza agevole, è l’unica via percorribile con il fuoristrada. Siamo sulla via Nampula – Corrane, quella che prosegue per Angoche. Nonostante sia un’ arteria stradale importante, nel 1995 non sono frequenti le macchine. Transitano soltanto i mezzi pubblici che collegano Nampula con Corrane e Liupo, poi Nampula Angoche. Passano pochissimi mezzi privati e pochi camion di ditte impegnate nella sistemazione della strada. Il silenzio degli automezzi favorisce  la libera circolazione dei pochi animali ancora esistenti.
Lasciata la città da una ventina di chilometri in lontananza vedo qualcosa come in un film. Qualcosa s’ innalza sul ciglio della strada. La macchina si avvicina e io vedo un serpente che si eleva dritto al di sopra dell’altezza della macchina mentre la parte terminale del corpo fa due cerchi concentrici nella cunetta. La testa un po’ schiacciata fa un giro all’intorno per osservare cosa lo circonda. Dalla bocca esce la lingua lunga che bagna velocemente le labbra, quasi pregustando il suo bocconcino prelibato, poi si vede il rettile, come una rigida canna, cadere in cunetta da dove era apparso. Istintivamente commento: “Che bello, peccato che sia durato poco tempo”.  Mi interrompe il mio compagno di viaggio: “Padre, può essere bello un serpente pericoloso?”
Dopo anni io lo osservo sempre davanti agli occhi, maestoso, bello, piacevole a vedersi e poco a giocare con esso.
In casa
Che la casa della missione sia sempre aperta a tutti è risaputo ma nessuno sogna di dare  accoglienza ad ospiti indesiderati senza uno specifico invito o un previo avviso.
Nella missione di Moma,  in provincia di Nampula vive da molti anni un giovane volontario spagnolo. Provvede da solo alle necessità più urgenti della popolazione in una zona molto grande e disagiata. Durante la guerra lavorava con un gruppo di missionari partiti subito dopo  il conflitto. Martinez, questo il nome del giovane, rimane sul campo e continua a lavorare. Benché sollecitato dalle autorità religiose garanti a lasciare la zona perché diventata pericolosa  per la sua solitudine, lui non si arrende. “Ho lavorato durante la guerra”, dice, “perché abbandonare ora che la guerra è finita?” Padre Mario, l’unico  sacerdote della missione,  incontra le comunità una volta all’anno per l’amministrazione dei sacramenti. Il missionario vive in una zona lontana inserito in un gruppo missionario.
 Visito Martinez con padre Mario. All’ingresso della missione si vede subito un serpente lungo più di tre metri, grosso, imbalsamato. E’ un monumento che domina tutta la stanza spaziosa. “Non aver paura, padre Ottavio”, mi rassicura il padrone di casa, indicandomi il rettile, “è morto e stecchito, mi fa compagnia. A me rappresenta la vittoria delle vittorie”. Ci sediamo su delle sedie di vimini intorno ad un tavolino anch’esso di vimini . Ci offre dell’acqua fresca e racconta: “E’ un pomeriggio,  mi riposo su quella sedia quando  sento   un rumore delicato ma strano alla porta. Non aspetto nessuna visita e non c’è in programma alcun incontro. Mi alzo e apro la porta. Entra strisciando un grosso serpente che si nasconde sotto il letto, lungo la parete. Salto per lo spavento e realizzo subito il pericolo. Il serpente in questione non è pericoloso quando morde ma, avvolgendosi alla preda la stritola.
 Con una mano afferro un bastone, con l’altra una fiaccola e lo affronto. Lottiamo, come si sul dire, corpo a corpo. Sudo in tutto il corpo non per il caldo afoso ma per la tensione. In un attimo sento i vestiti bagnati e attaccati alla pelle. Mi difendo con la fiaccola, col bastone tento di colpirlo alla testa. Esso si innalza e si butta a terra con velocità per cui è difficile colpirlo mortalmente. Nessuno mi può aiutare. Tento e ritento di colpirlo alla testa. Si muove  prontamente, spostandosi  in altezza e lateralmente. Quando apre  la bocca e la sua lingua esce e si ritira con una velocità incredibile. Il sangue si gela nelle mie vene. Sono stanco ma devo continuare la lotta, è questione di vita o di morte.
Se mi fermo finisco nella pancia del rettile e   sparisco dalla faccia della terra senza lasciare un segnale. Mi affido alla Madonna e al Signore. Come per incanto riacquisto vigore  e continuo la lotta. Anche il serpente da segni di stanchezza. Riesco a colpirlo alla testa e si ferma per un attimo. Approfitto e picchio ripetutamente sul capo finché lo schiaccio. Mi fermo e vado fuori a riposarmi. Chiudo la porta per non lasciar fuggire  il rettile. Ritorno dopo alcune ore e incontro il serpente non dove l’ho lasciato ma all’ interno della camera. Mentre prego guardo il serpente e ringrazio i miei protettori per avermi salvato. Vado nella cappella dove c’è il Santissimo, mi siedo in silenzio, non riesco a dire nulla ma penso alla lotta quale segno di ringraziamento”.
Mertinez mi guarda e ride e dice: “Reverendi padri, ora prepariamo il pranzo”. A Martinez un ringraziamento grande come la fatica quotidiana che sostiene per la testimonianza di fede e la dedizione incondizionata alla gente.