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venerdì 9 marzo 2018
giovedì 22 febbraio 2018
E' morto don Ottavio Cossu, missionario in Africa...
Cronaca di Gallura
(Claudio Ronchi) – La sua morte risale a qualche giorno fa, a Mercoledì delle Ceneri del 14 febbraio, inizio di Quaresima. Ed è avvenuta nel 45º anniversario di sacerdozio, a Viddalba, dopo aver celebrato messa. Don Ottavio Cossu era nato proprio a Viddalba, nella bassa valle del Coghinas, il 16 marzo del 1946 ed era stato ordinato sacerdote nel suo paese natale, il 7 luglio 1973, dal vescovo Carlo Urru.
“Ho svolto il mio ministero pastorale nelle parrocchie di Nulvi, Tempio, San Pasquale, Martis e nell’ospedale di Olbia”, aveva scritto in una sua breve autobiografia don Ottavio. “Successivamente ho continuato il mio operato per 15 anni, come missionario ‘fidei donum’ in Mozambico nelle diocesi di Nakala Porto, ove ho svolto attività di evangelizzazione e di concreto aiuto al popolo Makua, al nord del paese, una delle zone più martoriate della storia contemporanea, appena uscita da una guerra devastante e vittima di una colonizzazione portoghese schiavista conclusasi da pochi decenni”.
Don Ottavio Cossu era rientrato dall’Africa nel 2010 assumendo successivamente, in diocesi, vari incarichi. È stato legato a La Maddalena sia come insegnante che come missionario. Per molti anni infatti ha insegnato Religione all’Istituto Magistrale, nel periodo in cui è stato parroco di San Pasquale. E poi per le molte volte è tornato all’Isola, quando era missionario in Mozambico, per cercare qui, come in altre parti della Gallura, fondi per la sua missione. Vi andò, in Africa, come missionario della Diocesi di Tempio-Ampurias, autorizzato dal vescovo francescano Paolo Atzei, il quale non poté ulteriormente rinviare la pressante richiesta del piccolo sacerdote anglonese.
A Memba, sede della sua missione, è stato visitato negli anni dallo stesso vescovo Atzei e da alcuni sacerdoti tra i quali don Domenico Degortes e don Gianni Sini, responsabile diocesano per le missioni. Da don Cossu, in Africa, si sono avvicendati anche una sessantina di volontari laici, provenienti da diversi paesi della Gallura e dell’Anglona, i quali hanno lì prestato la loro opera ed aiuto per periodi di tempo più o meno lunghi. Alcuni vi si sono recati più volte.
Da La Maddalena sono andati da don Cossu, nella sua missione in Africa: Pier Carlo Acciaro, Tonino Canu, Nunzio Del Bene, Gianna Deiana. Per lunghi periodi e per molti anni è stato suo stretto collaboratore in Africa il poeta Pier Carlo Acciaro. La Missione ha ricevuto ingenti aiuti dai gruppi missionari diocesani come anche dal Gruppo Missioni di S.M.Maddalena coordinato da Anna Maria Gaspa.
mercoledì 21 febbraio 2018
In ricordo di don Ottavio
Parlare di don Ottavio, raccontare il suo essere sempre e comunque un "missionario" che praticava "il Verbo" fatto uomo in ogni sua azione mi è doveroso.
Io, Mariantonietta, malata di Parkinson, ho avuto la "grazia di conoscerlo.
Semplice, diretto, calmo, ironico.
Forte della sua "Fede" ha camminato sui percorsi più disagiati della vita, ha operato, coinvolgendo volontari, su quelle strade dove gli stessi uomini avevano piantato spine dolorose...HO avuto la fortuna di ascoltarlo...
Io, Mariantonietta, malata di Parkinson, ho avuto la "grazia di conoscerlo.
Semplice, diretto, calmo, ironico.
Forte della sua "Fede" ha camminato sui percorsi più disagiati della vita, ha operato, coinvolgendo volontari, su quelle strade dove gli stessi uomini avevano piantato spine dolorose...HO avuto la fortuna di ascoltarlo...
CRONACA OLBIA14 FEBBRAIO 2018
Olbia. Morto
l’ex cappellano del San Giovanni di Dio
Un
ricordo indelebile ANGELA DEIANA GALIBERTI
Olbia, 14 febbraio 2018 – Don Ottavio Cossu, storico cappellanodell’Ospedale San Giovanni di Dio di Olbia, è morto a 72 anni. Ieri
mattina, dopo aver celebrato messa a Viddalba – suo paese di origine, è stato
colpito un infarto mentre si trovava in casa.
Don Cossu ha lasciato
un bel ricordo in ogni paese in cui ha esercitato la sua missione cristiana:
oltre ad essere stato cappellano del primo ospedale olbiese e vice parroco
nella Cattedrale di Tempio, per anni ha vissuto in Africa – precisamente in Mozambico – dove ha cercato di dare sollievo
cristiano e materiale ai bisognosi.
Tante le opere di bene
fatte dal sacerdote sardo, tra cui la costruzione di scuole e pozzi, ma anche dare il via al microcredito agricolo nella missione di Kavà e l’avvio di una cooperativa per la lavorazione della ceramica nella parrocchia
di Kisangara Juu.
Profondo conoscitore della realtà
africana, don Cossu – una volta tornato in Sardegna – ha continuato ad
ascoltare la sua vocazione missionaria, senza mai smettere di raccontare
l’Africa: quella vera, quella che lui ha toccato con mano.
In un blog, don Cossu racconta le vicende africane delle missioni da lui visitate: un
racconto che si ferma il 6 gennaio 2018 con l’ultimo post dedicato ai serpenti
(animali molto diffusi nel continente africano, come sottolinea lo stesso
Cossu).
Nel post dedicato a sé
stesso, in cui racconta chi è e cosa ha fatto nella sua vita, don Cossu
descrive il suo primo incontro con il popolo makua, reduce da una guerra senza
fine: “Reduce da una guerra trentennale, il
popolo Makua sembra non sia capace di progettare, né di pensare al proprio
futuro. Indifeso, senza giustizia, né governo, nelle mani di chi ha soldi e
prepotenza, sempre pronto al furto e alla menzogna per sopravvivere. In
questa gente ho trovato un cuore grande e buono, che illumina il volto di luce,
affascina, conquista, e trascina chi ha il cuore semplice e desideroso degli
altri. Quei fratelli non hanno medicine per curarsi, né ospedali dove
ricoverarsi. L’acqua sporca che sono costretti a bere, le condizioni igieniche
dove vivono provocano malattie e morte. La buona volontà dei giovani non è
sorretta dai mezzi e la sete d’imparare non trova maestri che l’appaghino“.
Al rientro in Sardegna
ha anche fondato un’associazione: Noi una famiglia. L’associazione è formata da
“volontari che condividono il suo ideale di dedizione
agli altri per una crescita umanitaria, sociale e spirituale della persona nel
suo ambiente naturale“.
giovedì 15 febbraio 2018
Non un addio ma un ciao...
Carissimi fellower di questo blog
don Ottavio è venuto a mancare...
continuerò da sola quel cammino di narrare il vissuto da missionario in terra sua e in terra d'Africa.
Il suo operato dedito ai poveri, agli umili...agli ultimi, impreziosito da un silente e costante impegno, canta al cielo la purezza del suo cuore nel donarsi al Signore.
Una delle sue ultime pagine che ci ha lasciato
don Ottavio è venuto a mancare...
continuerò da sola quel cammino di narrare il vissuto da missionario in terra sua e in terra d'Africa.
Il suo operato dedito ai poveri, agli umili...agli ultimi, impreziosito da un silente e costante impegno, canta al cielo la purezza del suo cuore nel donarsi al Signore.
Una delle sue ultime pagine che ci ha lasciato
Aiutare
le persone
Si sa che la guerra porta con sé ogni tipo di male.
Uno dei tanti è la diffidenza. Quando
questa è accompagnata all’invidia sono
poche le speranze di salvarsi. Si rimane con i propri problemi , si diventa
ciechi e incapaci di giudizio anche quando tutto è chiaro e positivo. In questi
casi é compito del missionario andare incontro alle persone, creare opportunità
di riscatto ed essere sempre positivi, anche quando tutt’intorno porta in altra
direzione. Ovunque la guerra lascia mutilazioni di ogni tipo: persone con una
sola gamba, giovani con un braccio, bambini con malattie mentali, uomini e
donne con paralisi deformanti. Ovunque domina la sporcizia e l’assuefazione a essa.
Per alleviare simili mali é indetta una campagna di sensibilizzazione
promossa da una organizzazione italiana in favore di persone mutilati negli arti. Si tratta di presentarsi
all’ospedale di Namahaca per una visita preliminare e in seguito andare
all’ospedale di Nampula per l’applicazione della protesi. Tutto è gratis: viaggi,
visite, assistenza e controlli successivi. Come per le vaccinazioni o altri aiuti al centro di raccolta si attende
grande afflusso di malati. Si apre la campagna ma non si presenta nessuno,
nonostante circolino molti bisognosi. Si intraprende una seconda
sensibilizzazione capillare in modo personale in tutta la zona. L’iniziativa
abbraccia anche la missione di Kavà.
Io interpello un giovane e un anziano. Il primo è
Mauricio, frequenta assiduamente la comunità cristiana di Muipia. Con ardore si prepara per il battesimo e il matrimonio. A
lui manca metà della gamba sinistra che si era dovuta amputare a causa del
morso di un serpente quando, ancora bambino, fuggiva per salvarsi dai
guerriglieri. Mauricio è rispettato da tutti e l’intera comunità lo apprezza
per il coraggio e la forza che mostra nel lavoro. Il giovane accetta la
proposta con entusiasmo. Sogna di dover correre come un tempo senza portare
appresso bastoni o altro. Una cosa lo preoccupa: non sa come incollare il pezzo
mancante all’arto esistente. Gli sono spiegate le norme del caso. Il giovane chiede alcuni giorni di tempo per
riflettere e avvisare la fidanzata che abita lontano. Mauricio va a Chipene,
dove dimora la ragazza e non fa più
ritorno a Muipia. Agli amici confida che
non ritornerà più nel villaggio finché ci sarà “quel Padre”. Il giovane ha
paura di portare con sé una cosa che non gli appartiene (la protesi). Il bastone
che ha sempre fra le mani ormai fa parte
della sua persona e non lo può abbandonare. Incontrando il missionario è
obbligato a dare spiegazione e lui non vuole rivelare il suo segreto. Il
giovane, lontano dalla sua comunità si forma la famiglia e nessuno gli parlerà
mai più dell’arto mancante.
Al secondo interpellato mancano la gamba e il
ginocchio sinistro. Abilio, questo è il nome del signore in questione, è un
animista sui cinquant’anni. Durante la guerra, in una colluttazione col nemico
lo feriscono gravemente a una gamba con
coltelli e altro. Lui cura la profonda e
pericolosa ferita con radici e medicine tradizionali e la gamba sembra guarita.
Benché con atroci dolori lui vive tranquillo finché la ferita va in cancrena. All’ospedale
militare per salvargli la vita sono
costretti ad amputare la gamba e poi lo mandano a casa. Abilio non ha mai capito
il motivo per cui gli abbiano salvato la vita poiché in casi simili il ferito
era subito eliminato. In seguito il soldato si sposa alcune volte e ha dei figli. Le mogli lo licenziano dopo il
primo o il secondo parto con la motivazione che non lavora abbastanza. Abilio, stanco di cercare mogli, ora vive
solo. I figli, ammogliati e con figli anche loro, vivono nei villaggi
vicini e solo saltuariamente visitano il padre. Le molte vicende della vita lo
rendono diffidente e orgoglioso. Difficilmente si lascia aiutare. Cammina con
un bastone che serve anche come autodifesa quando i ragazzi si giocano di lui. In
particolare ci sono alcuni ragazzotti i
quali gli girano attorno imitando il suo modo di
camminare zoppicante. Lui si adira moltissimo e, sollevando per aria il bastone,
augura loro ogni sorta di disgrazia.
Non ammette scherzi sulla sua anomalia.
Quando é
convocato dal missionario si meraviglia che qualcuno si interessi a lui.
Curioso si presenta subito nella missione. Gli parlo della campagna in corso
per avere gratis la protesi che lo
renderebbe libero di camminare senza il bastone. Come Mauricio non capisce cosa
sia l’attrezzo che dovrebbe incollare alla sua gamba. Abituato oramai al
bastone non sa come lo possa abbandonare.
Nonostante i dubbi l’uomo si mostra contento e già s’immagina camminando
come un tempo. Per fugare ogni difficoltà ripeto più volte che non
c’è nulla da pagare, che sarà assistito in tutto e che sarà accompagnato in
ogni trasferta. Lui deve dare la sua
autorizzazione e all’ospedale firmare un foglio per garantire il consenso.
Abilio pensa per un attimo, osserva il mio volto, poi dice: “Quanto mi dà?” “Perché
mi chiedi questo?”, rispondo io, “ti do la possibilità di camminare bene come
tutti gli altri, non ti basta?”. “Padre”, replica lui, “se mi ha convocato
significa che lei guadagna dalla mia gamba e io voglio la mia parte”. Mentre
parla stende la mano aperta verso di me con un sorriso malizioso. Spiego nuovamente
il significato di quella campagna, assicuro la gratuità assoluta da parte di
tutti e che io non guadagno nulla. A
niente vale il mio discorso. L’uomo si
allontana per vivere col suo bastone.
mariantonietta
sabato 6 gennaio 2018
I serpenti...esperienza diretta..
Tutta l’Africa è disseminata di serpenti di ogni
misura e pericolosità. Ci sono serpenti piccoli che danno pochi minuti di vita
alla preda che morde. Ci sono i serpenti di due o tre metri i quali sono
pericolosi non perché mordono ma perché avvolgono la preda e la stritolano. C’è
anche un serpente verde innocuo lungo circa trenta centimetri. Tutti si possono incontrare
ovunque, per le strade, nei campi e all’interno di una abitazione. Preferiscono
i luoghi bui, sotto le foglie e in mezzo ai rami. Strano ma vero, c’è qualche
serpente che può mordere anche dopo morto e il suo morso è mortale. L’udito e
la vista degli indigeni scorgono di lontano la presenza di esseri che si
muovono in terra o sugli alberi. Con una
pietra o un bastone anche i ragazzi
riescono a difendersi bene. Sentiamo.
Nel pollaio
Si sente rumore inconsueto nel pollaio, le galline
si ritirano spaventate in un angolo, poi silenzio. Passa qualche minuto ed è calma
assoluta. Le guardie notturne si scaldano al fuoco acceso per
segnalare la presenza di qualcuno. Una guardia si alza improvvisamente e indica
a distanza di alcuni metri qualcosa che striscia. Il cobra, lasciato il pollaio,
si dirige verso la campagna. Le guardie
si alzano in piedi e impugnano il
machete e la lancia. L’animale aumenta la velocità ma è raggiunto da una lancia
che si conficca nella testa, bloccandolo a terra. La guardia si avvicina e assicura bene la
lancia in terra per fermare la preda,
poi tutti si siedono vicino al fuoco. Il rettile è lungo due metri e ottanta
centimetri ed è grosso abbastanza da ingoiare uno di loro senza alcuna
difficoltà. Con i primi bagliori della
luce gli uomini controllano il bottino e osservano che il serpente, dimenandosi
dalla stretta della lancia si svincola
dall’arma ma non riesce ad allontanarsi di molti metri. Nel preparare il
serpente per la padella, questo tipo di serpente è combustibile, le guardie trovano
nel suo interno una gallina ingoiata nel pollaio. Gli operai fortunati
commentano ridendo: “Guardi, padre, forse aveva fretta o è stato disturbato, l’ha
ingoiata così come l’ha trovata: sporca
e con le penne”.
Sui piedi
Sono seduto alla porta della cucina e scrivo con i
fogli e un libro appoggiati su una sedia che mi fa da scrivania. Ai piedi porto
le ciabatte facilmente accantonabili quando si è seduti. Mi esercito nella
lettura e scrittura del portoghese che ancora porta molta fuliggine nella mia
mente. Isolato dal resto del mondo odo solamente lo sbattere delle onde sugli
scogli a pochi metri di distanza. Avvolto dalla solitudine dell’ambiente e
immerso nella lettura, sento sui piedi un fresco fuori stagione e qualcosa che
scorre. E’ un fresco gradevole per cui, impassibile, permetto a ciò che dà sollievo faccia il suo
corso. Con la coda dell’occhio scorgo
sulla mia sinistra un serpente di circa venticinque centimetri allontanarsi. Mi alzo
per seguirlo mentre striscia ma è già
scomparso nella sterpaglia. La sensazione di fresco è piacevole così com’ è
grande il pericolo corso. I ragazzi mi dicono che se mi avesse morsicato quel
tipo di serpente mi avrebbe lasciato poche ore di vita. Ringraziamo la Madonna
dello scampato pericolo.
Uscito
dalla cunetta
Rientro da Nampula nel primo pomeriggio nella Land
Rover Defender vecchio tipo. La macchina è forte, alta, stile camioncino. Viaggia
con me un giovane indigeno che mi ha guidato nelle vie della città. La strada è
sterrata ma abbastanza agevole, è l’unica via percorribile con il fuoristrada. Siamo
sulla via Nampula – Corrane, quella che prosegue per Angoche. Nonostante sia
un’ arteria stradale importante, nel 1995 non sono frequenti le macchine.
Transitano soltanto i mezzi pubblici che collegano Nampula con Corrane e Liupo,
poi Nampula Angoche. Passano pochissimi mezzi privati e pochi camion di ditte
impegnate nella sistemazione della strada. Il silenzio degli automezzi
favorisce la libera circolazione dei
pochi animali ancora esistenti.
Lasciata la città da una ventina di chilometri in
lontananza vedo qualcosa come in un film. Qualcosa s’ innalza sul ciglio della
strada. La macchina si avvicina e io vedo un serpente che si eleva dritto al di
sopra dell’altezza della macchina mentre la parte terminale del corpo fa due
cerchi concentrici nella cunetta. La testa un po’ schiacciata fa un giro
all’intorno per osservare cosa lo circonda. Dalla bocca esce la lingua lunga
che bagna velocemente le labbra, quasi pregustando il suo bocconcino prelibato,
poi si vede il rettile, come una rigida canna, cadere in cunetta da dove era
apparso. Istintivamente commento: “Che bello, peccato che sia durato poco
tempo”. Mi interrompe il mio compagno di
viaggio: “Padre, può essere bello un serpente pericoloso?”
Dopo anni io lo osservo sempre davanti agli occhi,
maestoso, bello, piacevole a vedersi e poco a giocare con esso.
In casa
Che la casa della missione sia sempre aperta a tutti
è risaputo ma nessuno sogna di dare accoglienza ad ospiti indesiderati senza uno
specifico invito o un previo avviso.
Nella missione di Moma, in provincia di Nampula vive da molti anni un
giovane volontario spagnolo. Provvede da solo alle necessità più urgenti della
popolazione in una zona molto grande e disagiata. Durante la guerra lavorava
con un gruppo di missionari partiti subito dopo il conflitto. Martinez, questo il nome del
giovane, rimane sul campo e continua a lavorare. Benché sollecitato dalle
autorità religiose garanti a lasciare la zona perché diventata pericolosa per la sua solitudine, lui non si arrende. “Ho
lavorato durante la guerra”, dice, “perché abbandonare ora che la guerra è
finita?” Padre Mario, l’unico sacerdote
della missione, incontra le comunità una
volta all’anno per l’amministrazione dei sacramenti. Il missionario vive in una
zona lontana inserito in un gruppo missionario.
Visito
Martinez con padre Mario. All’ingresso della missione si vede subito un
serpente lungo più di tre metri, grosso, imbalsamato. E’ un monumento che
domina tutta la stanza spaziosa. “Non aver paura, padre Ottavio”, mi rassicura
il padrone di casa, indicandomi il rettile, “è morto e stecchito, mi fa
compagnia. A me rappresenta la vittoria delle vittorie”. Ci sediamo su delle
sedie di vimini intorno ad un tavolino anch’esso di vimini . Ci offre
dell’acqua fresca e racconta: “E’ un pomeriggio, mi riposo su quella sedia quando sento un rumore delicato ma strano alla porta. Non
aspetto nessuna visita e non c’è in programma alcun incontro. Mi alzo e apro la
porta. Entra strisciando un grosso serpente che si nasconde sotto il letto,
lungo la parete. Salto per lo spavento e realizzo subito il pericolo. Il
serpente in questione non è pericoloso quando morde ma, avvolgendosi alla preda
la stritola.
Con una mano
afferro un bastone, con l’altra una fiaccola e lo affronto. Lottiamo, come si
sul dire, corpo a corpo. Sudo in tutto il corpo non per il caldo afoso ma per
la tensione. In un attimo sento i vestiti bagnati e attaccati alla pelle. Mi
difendo con la fiaccola, col bastone tento di colpirlo alla testa. Esso si
innalza e si butta a terra con velocità per cui è difficile colpirlo
mortalmente. Nessuno mi può aiutare. Tento e ritento di colpirlo alla testa. Si
muove prontamente, spostandosi in altezza e lateralmente. Quando apre la bocca e la sua lingua esce e si ritira con
una velocità incredibile. Il sangue si gela nelle mie vene. Sono stanco ma devo
continuare la lotta, è questione di vita o di morte.
Se mi fermo finisco nella pancia del rettile e sparisco dalla faccia della terra senza
lasciare un segnale. Mi affido alla Madonna e al Signore. Come per incanto
riacquisto vigore e continuo la lotta.
Anche il serpente da segni di stanchezza. Riesco a colpirlo alla testa e si
ferma per un attimo. Approfitto e picchio ripetutamente sul capo finché lo
schiaccio. Mi fermo e vado fuori a riposarmi. Chiudo la porta per non lasciar
fuggire il rettile. Ritorno dopo alcune
ore e incontro il serpente non dove l’ho lasciato ma all’ interno della camera.
Mentre prego guardo il serpente e ringrazio i miei protettori per avermi
salvato. Vado nella cappella dove c’è il Santissimo, mi siedo in silenzio, non
riesco a dire nulla ma penso alla lotta quale segno di ringraziamento”.
Mertinez mi guarda e ride e dice: “Reverendi padri,
ora prepariamo il pranzo”. A Martinez un ringraziamento grande come la fatica
quotidiana che sostiene per la testimonianza di fede e la dedizione
incondizionata alla gente.
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