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giovedì 30 novembre 2017
Il Natale in "Cuzina"
Buongiorno a tutti.
Oggi è il primo giorno di Dicembre il mese del Natale.
Propongo il messaggio natalizio vissuto dagli abitanti di Santa Maria Coghinas lo scorso anno.
Santa Maria Coghinas detto in gallurese "Cuzina" è un piccolo paese di 1400 anime.
Tra morbide colline nella "Bassa valle del fiume Coghinas, nord Sardegna, è sito tra Valledoria e Viddalba.
Auguri di pace e serenità
https://youtu.be/w8g0_lH68gs
Oggi è il primo giorno di Dicembre il mese del Natale.
Propongo il messaggio natalizio vissuto dagli abitanti di Santa Maria Coghinas lo scorso anno.
Santa Maria Coghinas detto in gallurese "Cuzina" è un piccolo paese di 1400 anime.
Tra morbide colline nella "Bassa valle del fiume Coghinas, nord Sardegna, è sito tra Valledoria e Viddalba.
Auguri di pace e serenità
https://youtu.be/w8g0_lH68gs
Per la morte di un amico
La morte di una persona cara è sempre un trauma. In
chi rimane su questa terra essa segna un altro stile di vita: Si lasciano delle
abitudini per prenderne altri, si innestano ricordi benevoli e, alle volte,
rimorsi dolorosi. Il vuoto lasciato da chi parte non si può colmare perché non
si sente più la voce, mancano le lamentele o gli apprezzamenti per i servizi
prestati. Si prestano ad altri le
attenzioni che prima si prodigavano a
chi non è più. Nessuno può sostituire la persona cara. Eppure quella persona è
viva, la si sente accanto, si parla con lei, a lei si chiedono consigli, si
sente la risposta, ancora si lavora insieme. Tutto avviene in modo differente,
misterioso ma reale nel cuore e nell’anima.
Ora accompagniamo il nostro fratello all’estrema
dimora. Lui entra a far parte delle persone che godono la salvezza assicurata
da Cristo morto e risorto.
Confortato dal vangelo di oggi che ci assicura che
le forze del male non prevarranno mi è caro pensare il fratello nella gloria di
Dio, assicurata a tutti coloro che si affidano a Lui.
Non
mi è difficile vedere la vita di zio Pietrino in quella di Giobbe.
Questo era un personaggio biblico facoltoso,
buono, attento alla famiglia e ai sudditi. Va in fallimento, perde tutto, anche
la salute. Il suo corpo si copre di piaghe e tutti lo invitano a maledire il
suo Dio che ha permesso una simile situazione. Al contrario Giobbe risponde: Oh, se le mie parole si scrivessero!
Se s’ imprimessero sulla roccia con stilo di ferro e con piombo! Io so che il
mio redentore è vivo e che ultimo si ergerà sulla polvere. Quando il mio corpo
si sarà disfatto con questi miei occhi io, io stesso Lo vedrò. Giobbe va oltre
il momento penoso che vive, considera le sue sofferenze non fine a se stesse ma
in relazione della vita che troverà in Dio dopo l’esperienza dell’annullamento
del corpo. Giobbe vive nel desiderio l’esperienza della morte e della
resurrezione. Quanto detto da Giobbe si realizzerà in ciascuno di noi con la
potenza del Cristo morto e risorto.
Se non
avessimo questa certezza a che servirebbe la lotta della vita del nostro
fratello che accompagniamo all’estrema dimora? Quale ricompensa per una
esistenza spesa per la famiglia, nel portare avanti una famiglia di nove figli
dei quali otto vivi? Nell’educarli al lavoro, all’unità, al servizio e
generosità fino ad assicurare una dimora a ciascuno? Quale ricompensa per il
sudore versato nell’attività costante e lungimirante della sua vita? A che
servirebbe ora l’amore, la fedeltà, la dedizione alla moglie per i lunghi e
duri anni trascorsi insieme? Dove è finita l’amicizia con i colleghi di lavoro? Quale frutto ha potuto cogliere dalle gioie e dalle
fatiche di una vita se gli ultimi anni li ha trascorsi nell’incoscienza e alla
mercé di tutti? Certo, riceveva amore, attenzione, servizio costante ma lui non
ne era consapevole.
Per chi guarda solo alla terra e non solleva lo
sguardo al cielo, oltre il travaglio delle sofferenze tutto si risolve in un
autentico fallimento. Per i cristiani, al contrario, è il prezzo di una
eternità beata. Per noi grida ancora Giobbe che ricorda: Il mio Redentore è
vivo e ultimo si ergerà sulla polvere
(la polvere dei nostri corpi e delle realtà
terrene). Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne vedrò Dio, io stesso, i miei occhi lo
contempleranno così come è. Qui sulla terra paghiamo un prezzo altissimo perché
la ricompensa che ci aspetta è infinita, eterna.
giovedì 16 novembre 2017
Poesia...Un mattino
...un mattino,
quando la natura
dorme ancora,
me ne andrò...
...in silenzio...
Il mio cuore
avrà la stessa emozione
di quando arrivò
in questa Terra,
ove uccellini
attendono
la Primavera.
...Un mattino me ne andrò
in silenzio...
portandomi un carico
d'amore
Pier Carlo Acciaro
Memba 10 nov. 1999
L'elezione dell'anziano di Napako
Elezione dell’anziano di Napako
Napako è una piccola comunità cristiana sulla strada
Kavà – Alua. L’anziano della comunità è un vecchietto del tempo coloniale che
governa con il terrore dei feticci
(malocchio). Tutti hanno paura di lui. Ciò che lui decide è legge e non accetta alcuna
interpretazione a ciò che dice. I paurosi gli ubbidiscono, alcuni si
allontanano, i musulmani e gli animisti non si avvicinano alla cappella per
timore. Tutti sono stanchi della sua presenza. Vorrebbero cambiare ma come
dirlo al Padre poiché l’anziano gli sta sempre al calcagno? Ci sarebbe uno col quale sostituirlo ma questi
non accetta, sempre per paura. Ci sarebbe un’ alternativa: affidare a Càssimo, animatore di zona, anche l’incarico di
anziano. La comunità non lo ritiene opportuno perché si accumulerebbe troppo
potere nelle mani di uno solo. Accanto a lui c’è anche la moglie chiacchierona e autoritaria. Arriva il momento
propizio e il missionario convince il vecchio responsabile a lasciare
l’incarico. Prima di licenziarsi l’anziano
indica il suo successore nella persona
di Swardi Mulakya e lo presenta all’assemblea come già eletto. I fedeli, pur con la paura di una reazione
pericolosa dell’anziano rinunciatario, non si sentono vincolati e scelgono un altro con voto segreto alla
presenza del missionario. Viene eletto Ramiro Loja, il catechista della terza
tappa, è il catechista che prepara all’ammissione ai sacramenti. L’assemblea si
mostra finalmente libera, confidando nella forza e nella libertà del
missionario.
L’eletto inizia a tremare, è smarrito, vorrebbe
rifiutare, diviene immobile, il suo sguardo passa dall’altare al missionario e
poi fissa un punto sul pavimento. Confesserà più tardi che in quel momento
desiderava sprofondarsi nella terra e non vedere più nessuno. La cerimonia di insediamento prevede
che l’anziano uscente e il nuovo eletto siano seduti uno
alla destra e l’altro alla sinistra del celebrante. E’ impressione di tutti che
l’eletto sia afferrato dal tormento dell’ufficio da svolgere all’altare e dalla
paura di dover morire a causa del suo predecessore. La forza del padre che
l’avrebbe protetto non lo rasserenava. Il
missionario chiede il consenso a Ramiro per procedere all’investitura e lui non
risponde. Il volto dell’eletto diventa lucido per la paura, il suo sguardo
assente è rivolto alla terra, ora fisso su un punto ora rivolto verso la porta.
Sembra sentirsi male. L’animatore di zona lo incoraggia e ricorda che anche lui
era stato minacciato di morte quando l’avevano
eletto alla carica zonale, ma sono passati più di venti anni e ancora è vivo. Poi
dice: “Non preoccuparti, la comunità è con te, non avere paura di nessuno”. Il
missionario sospende l’incontro e incarica Càssimo di sostituire l’ eletto per un mese.
Alla scadenza del mese il missionario è nuovamente nella comunità per la presa di possesso del
nuovo anziano. E’ presente tutta la comunità eccetto l’anziano decaduto. Questo,
insieme alla sua famiglia e alla famiglia di Swardi Mulakya, cambia zona e non
fa più ritorno in paese. In seguito si
saprà che, appena superato il confine della missione, senza avvisare
alcuna autorità, ha fondato un’altra comunità con i parenti e gli amici. Questo
è un atteggiamento tipico di chi perde il potere nel proprio ambiente e non
spera di ricuperarlo. Tutto volge al meglio, eccetto per Ramiro che è sempre
incerto e pauroso, anzi più incerto e pauroso di prima. Occorre un colloquio a
tre: il missionario, il responsabile di zona e l’eletto. Il nuovo eletto
presenta le sue difficoltà che vengono subito
risolte dall’autorità dell’animatore di zona. Approfittando dell’assenza
momentanea dell’animatore di zona, Ramiro mi confida che l’ostacolo maggiore è
proprio lui, Càssimo, poiché ora si sente defraudato del posto di
anziano. Capisco che occorre un mio discorso rassicurante Ramiro e che metta
paura nell’animatore.
Alla presenza dei due e dell’animatore parrocchiale inizio
il “trattamento” contro il malocchio. Naturalmente
è una cerimonia inventata sul momento perché l’unico rimedio a questa malattia
mortale è l’autoconvinzione che non esiste il malocchio. Controllando le
reazioni dei tre, li faccio sedere
davanti a me e prendo nelle mie mani la mano destra dell’anziano, la stringo
forte in modo che lui senta bene la presa. Raccomando ai tre di pensare solo a
ciò che accade tra noi, allontanando ogni altra preoccupazione o desiderio. Guardo
fisso gli occhi di Ramiro e invito i tre a guardare solo i miei occhi e a
pensare solo a me. Ecco il discorso che si rivela persuasivo ed efficace, almeno per un lungo
periodo:
“Conoscete
l’importanza del momento. Siamo qui per
allontanare da noi e dalla comunità cristiana ogni tipo di maleficio.
Sapete che al bianco e al missionario
non attaccano i feticci né alcun’’altra forma di maledizione. Come vedete ora
sta davanti a voi un bianco che è missionario e porta in sé ogni forma di
difesa per lui e per coloro i quali lavorano con lui. Voi avete lavorato da
sempre con il missionario, avete piena fiducia nel Signore Gesù, che ha vinto
la morte e il male. Niente è impossibile a chi vince la morte. L’unico rimedio
per superare il male è la preghiera fiduciosa in Gesù e nella Madonna. Se noi
abbiamo paura, questa ci toglierà le forze, ci obbligherà a pensare solo alla situazione personale e ci distruggerà. Chi
pensa di essere preso dal feticcio si ammala pensando ad esso, non mangia più,
non vuole guarire, muore di disperazione e di stenti. Al contrario chi non
crede in esso non è soggetto alla paura e vive bene, lascia che gli altri si divertano con i propri
malefici e mette la sua vita nelle mani di chi ha vinto la morte. Ora guardate
bene, Ramiro ha la sua mano nelle mie mani, esiste una continuità fra la sua
persona e la mia persona, io prendo sulla mia persona tutti i malefici che
scendono su Ramiro, niente potrà fare del male a lui o alla sua famiglia. I
malefici afferrano prima la testa poi il resto del corpo. Ramiro,
ascolta bene quanto sto per dire: “ Se qualcuno vorrà farti del male tu
rispondi che è libero di fare ciò che vuole, il suo operato non si ferma sulla
tua persona ma passa alla persona del Padre, L’operatore di malefici risponderà a me e non a te. Quel tizio avrà ciò che merita”.
Dopo la
catechesi l’eletto si rasserena e possiamo procedere alla presa di possesso con grande allegria
dell’assemblea. Questa non sembra per
niente infastidita per l’attesa prolungata dovuta al colloquio, anzi mostra
soddisfazione per la conclusione raggiunta.
Il missionario inizia la celebrazione eucaristica, accompagnato dall’animatore di zona,
dall’animatore parrocchiale e dal nuovo eletto. Il nuovo anziano rivestito delle vesti proprie,
si mostra padrone della cerimonia. Ora anche
Napako può andare avanti spedita con il
responsabile di sua fiducia senza alcun
intralcio per la presenza di Swardi Mulakya e il suo amico.
giovedì 9 novembre 2017
Anche le scimmie piangono...
Anche le scimmie piangono
Nei racconti di un vecchio
missionario ce ne sono alcuni particolarmente significativi che
meritano di essere ricordati. Padre Pio Santo Canova ricorda così gli inizi del
suo ministero nella zona di Lurio.
“Nella zona di Lurio vengo col gruppo missionario per conoscere le terre al fine di fondare una missione. Al mio arrivo tutta la vastissima zona é un’unica foresta interrotta
da ampie savane abitate da molte specie di animali. Vivono indisturbati, i palapala, le gazzelle e
molti tipi di maiali selvatici. Non mancano
i leoni, gli elefanti, le scimmie, i leopardi. Sono
tutti animali che scendono nei piccoli villaggi alla ricerca di cibo. Quando gli
animali non hanno fame o non sono disturbati la gente convive con essi quasi
serenamente. Noi missionari siamo anche
provetti cacciatori perciò la carne non manca mai nella mensa della
missione. Gli animali preferiti sono le gazzelle, i palapala e, in mancanza di
questi si cacciano anche le scimmie, più numerose e più facili da rintracciare.
Appena arrivati sul posto prescelto
per impiantare la missione si costruisce una cappella, un centro sanitario, un
centro di alfabetizzazione per ragazzi e ragazze, le abitazioni del personale missionario e degli
operatori. Per realizzare tutto questo occorre molto tempo. Non ovunque arriva
il fuoristrada per cui il materiale si deve trasportare spesso a piedi e sulla
testa per molti chilometri. In compenso abbiamo
a disposizione tutto il tempo necessario. Sembra che gli anni e i secoli ci
appartengano.
Fiumane di persone si accalcano
nel centro sanitario con ogni forma di malattie. Spesso sono persone con lo
stomaco vuoto da molto tempo. Il centro di alfabetizzazione ospita in modo
permanente cinquanta ragazzi e alcune ragazze, altri arrivano a piedi dai
centri più vicini. Dobbiamo sudare parecchio per aprire la scuola poiché il saper
leggere e scrivere non offre subito da mangiare e i familiari devono
lavorare inutilmente, aspettando i benefici della istruzione. Una particolare avversione
si riscontra per le ragazze, nate per dare un’ abbondante discendenza alla
tribù. Per far questo non occorre saper leggere e scrivere, inoltre nel periodo
dello studio si perde tempo e si acquistano brutte abitudini. In realtà
l’istruzione delle ragazze rallenta lo sviluppo della tribù. Nella situazione
descritta il mio compito é quello di evangelizzare mente e anima, oltre ad
assicurare il cibo quotidiano”. Mentre racconta, padre Canova sembra rivivere
quei momenti., orgoglioso delle sue imprese.
“Una volta mi sono dovuto assentare per una settimana”, continua il
missionario, “ nel frattempo la dispensa si é svuotata. Non c’è
tempo per andare a caccia di gazzelle o
di palapala per assicurare il pranzo. La preoccupazione delle suore addette
alla cucina diventa la mia preoccupazione: cosa dare per
sfamare una marea di gente? Io non ho
ancora imparato a moltiplicare né pane e neppure i pesci. Prego ugualmente il
Signore dei miracoli e come i discepoli presento la mia disponibilità. Si deve trovare qualcosa d’ immediato. Ricordo che non lontano da casa si rifugia
sugli alberi una famiglia di scimmie. Senza perdere tempo, prendo il fucile e
mi dirigo verso l’albero, prima che gli animali vadano altrove. Accoccolata sui rami c’é ancora ben visibile tutto il branco. Sparo
alcuni colpi. Due scimmie cadono per terra, alcune fuggono. La madre, un grosso
esemplare da far paura, scende dalla chioma dell’albero, si mette accanto ad
una delle sue creature senza vita e osserva la sua prole. Istintivamente mi viene da sparare anche a essa ma subito mi trattengo. La preda caduta è sufficiente per quel giorno
e sto a osservare cosa avrebbe fatto la madre.
Con il fucile in mano pronto allo sparo, immobile assisto ad una scena unica,
mai vista prima né dopo. Quella grossa mamma prende fra le braccia una delle
due scimmie morte e solennemente la solleva in alto. I suoi occhi lasciano
scorrere abbondanti lacrime. Con passo
lento si dirige verso la mia postazione
e, senza troppo avvicinarsi, la depose ai miei piedi.
Non é fuggita, non ha potuto
difendere la prole e ora consegna all’uomo crudele il suo terribile dolore. Presenta la sua sconfitta al
vincitore, sconfitto anche lui dall’istinto materno di una scimmia. Poi quella
mamma si allontana velocemente in direzione
delle altre scimmie sopravvissute. Io mi ritrovo solo con il mio fucile in
mano. Osservo la preda. Sono indeciso se portarla a casa o darle degna
sepoltura. Pur nello smarrimento raccolgo gli animali e li consegno ai ragazzi. Per tutto quel giorno non riesco a mangiare,
non parlo con nessuno per non infastidire qualcuno. I ragazzi, ignari di tutto,
mangiano in abbondanza. Quella scena materna è scolpita nella mia mente. Sembra
che le lacrime della madre scimmia bagnino il mio volto e, senza niente asciugare,
passo le mie mani sulle guancie e negli
occhi. Il dolore della madre é diventato il mio dolore. Mai più avrò il
coraggio di cacciare una scimmia.
mercoledì 8 novembre 2017
"Formiche carnivore"
Formiche
carnivore
Si ritiene che le formiche siano
fra gli esseri viventi più numerosi. Si trovano ovunque, in qualunque periodo
dell’anno e a qualunque latitudine del globo. Qualcuno stima che ci siano due
milioni di formiche per ogni essere umano. Ce ne sono piccolissime e di una
certa grandezza. Esse si nutrono di tutto: dall’erba alla carne. Ci sono
formiche che viaggiano alla luce altre che escono dalle tane al buio, altre
ancora lasciano le loro caverne alle prime piogge e muoiono subito dopo.
Possiamo dire che ce ne sono per tutti i gusti, anche commestibili, chi se ne
ciba afferma che sono squisite.
Le formiche carnivore sono belle
al vedersi e interessanti a studiarsi ma pericolose quando aggrediscono. Rimedi
molto efficaci per difendersi da questi insetti sono il fuoco e il petrolio. Nessuno
pensi che ci si possa difendere facilmente da questo tipo di insetti quando non si hanno pronti simili rimedi. Ho
visto persone correre, saltare e dimenarsi mentre cercavano le formiche nel
proprio corpo e nei vestiti, dopo essere state aggredite. Escono a milioni in colonna al buio alla
ricerca di cibo. Dove trovano una preda, si riversano immediatamente su di essa
e in poco tempo la divorano. Davanti
allo studentato in una notte é scarnificato un gattino nato da poco tempo. Il malcapitato non è
riuscito a fuggire. Un’altra volta è un coniglio che, intrappolato nella sua gabbia, viene
scarnificato . Fanno impazzire grossi e pericolosi animali quando si annidano
nelle orecchie, nelle narici o in altri parti delicati del corpo.
Distrattamente Johana, ospite nella missione,
durante una passeggiata al chiarore di luna, calpesta una colonna di formiche
carnivore. Immediatamente sente un
formicolio in tutto il corpo, si dimena cercando di liberarsi ma non riesce e si
adira con me perché non l’ho avvisata in tempo di un simile pericolo. Promette
che non sarebbe più venuta in questo posto maledetto. Io rido e lei si dimena
ancora di più. Corre per raggiungere l’abitazione e cambiare i vestiti. Solo in
quel momento l’ospite riesce a ridere e scherzare, all’oscuro
di quanto le sarebbe accaduto durante la notte.
Quella stessa notte, infatti, Johana
e Selene, sua compagna di avventura, mi svegliano disperate. Non sanno cosa
fare e dove andare. Non ridono e non gridano, sono smarrite per lo spettacolo
che le circonda. Le formiche hanno invaso la loro stanza, il corridoio, la sala
e la cucina. Iniziano ad entrare anche nella mia stanza ubicata in fondo al
corridoio. Le ospiti promettono di andarsene lontano e non ritornare mai più in
questo posto dimenticato da tutti,
abitato solo dai mali di questo mondo. Come di norma si adirano con me perché
mi vedono calmo e sereno e iniziano a parlare a voce alta, poi a gridare. In
cucina le formiche hanno occupato i
cestini e i recipienti dove si conservano i cibi, hanno riempito lo scarico del lavabo e il rubinetto dell’acqua.
Da qui pende un gigantesco grappolo di
formiche. Si presenta uno spettacolo
meraviglioso quanto pericoloso. Bisogna resistere ai morsi spietati che le formiche
offrono in abbondanza e iniziare a porre rimedio. Accorrono gli ospiti che dormono in una casa
vicina, spaventati per il chiasso che si è creato. Qualcuno fotografa tutto. Io col petrolio del lucerniere faccio un corridoio in mezzo alle
formiche in direzione del ripostiglio dove
conservo un bidoncino quasi pieno di petrolio. Il prezioso liquido è sparso in
tutta l’abitazione. Si costeggia il muro all’esterno fino alle tane degli
insetti. Le ospiti mi seguono con paura per controllare che venga eliminata anche la più piccola delle formiche.
Gli ospiti fotografano tutti i movimenti.
Mentre compio l’operazione di liberare l’ambiente, mi chiedo il perché di
tutto lo sterminio. In fondo quelle
formiche vogliono solo vivere, cercano il loro cibo, non disturbano nessuno se
non sono prima infastidite. Perché noi
dobbiamo vivere e loro no? Mi ricordo l’osservazione di un bambino che mi
vede ai piedi di un grosso albero di mango uccidere una colonia di formiche rosse che si
inerpicano fra i rami per fare il loro involucro, seccando così le foglie e i rami all’interno dell’involucro. Il bambino si
avvicina e, con un velo di tristezza sul volto chiede: “Padre, perché uccide le formiche?
cosa le hanno fatto?”. La domanda del bambino, nella sua semplicità e
immediatezza, insegna tanto anche a noi grandi e sapientoni.
Ecco, ad esempio: il rispetto per la natura, il lasciare di far valere sempre e
ad ogni costo la legge del più forte, il dover vivere del proprio lavoro senza
sfruttare gli altri, la collaborazione, l’unità che crea benessere e forza.
Mentre assistiamo alla ritirata degli insetti malefici arriva un ragazzo dello
studentato per avvisare che le formiche sono entrate nel pollaio e hanno
aggredito le galline. Una non si muove più.
Gli alunni hanno già iniziato a bruciare erbe intorno al pollaio per
impedire che altre entrino. Con il poco petrolio avanzato spruzziamo le singole
galline.
Si fa vedere il chiarore
dell’alba e per noi è inutile andare a letto, preferiamo sederci sotto i grandi
cajueri a raccontare le maledizioni della
notte. Questa volta ridiamo tutti e godiamo per lo scampato pericolo. Anche le
ospiti che avevano promesso di abbandonare definitivamente il posto ridono e
commentano: “Lei, Padre ha un bel
coraggio per vivere qui da solo!”.
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