Missione in terra d'Africa di don Ottavio Cossu
La gioia della scoperta...
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venerdì 9 marzo 2018
giovedì 22 febbraio 2018
E' morto don Ottavio Cossu, missionario in Africa...
Cronaca di Gallura
(Claudio Ronchi) – La sua morte risale a qualche giorno fa, a Mercoledì delle Ceneri del 14 febbraio, inizio di Quaresima. Ed è avvenuta nel 45º anniversario di sacerdozio, a Viddalba, dopo aver celebrato messa. Don Ottavio Cossu era nato proprio a Viddalba, nella bassa valle del Coghinas, il 16 marzo del 1946 ed era stato ordinato sacerdote nel suo paese natale, il 7 luglio 1973, dal vescovo Carlo Urru.
“Ho svolto il mio ministero pastorale nelle parrocchie di Nulvi, Tempio, San Pasquale, Martis e nell’ospedale di Olbia”, aveva scritto in una sua breve autobiografia don Ottavio. “Successivamente ho continuato il mio operato per 15 anni, come missionario ‘fidei donum’ in Mozambico nelle diocesi di Nakala Porto, ove ho svolto attività di evangelizzazione e di concreto aiuto al popolo Makua, al nord del paese, una delle zone più martoriate della storia contemporanea, appena uscita da una guerra devastante e vittima di una colonizzazione portoghese schiavista conclusasi da pochi decenni”.
Don Ottavio Cossu era rientrato dall’Africa nel 2010 assumendo successivamente, in diocesi, vari incarichi. È stato legato a La Maddalena sia come insegnante che come missionario. Per molti anni infatti ha insegnato Religione all’Istituto Magistrale, nel periodo in cui è stato parroco di San Pasquale. E poi per le molte volte è tornato all’Isola, quando era missionario in Mozambico, per cercare qui, come in altre parti della Gallura, fondi per la sua missione. Vi andò, in Africa, come missionario della Diocesi di Tempio-Ampurias, autorizzato dal vescovo francescano Paolo Atzei, il quale non poté ulteriormente rinviare la pressante richiesta del piccolo sacerdote anglonese.
A Memba, sede della sua missione, è stato visitato negli anni dallo stesso vescovo Atzei e da alcuni sacerdoti tra i quali don Domenico Degortes e don Gianni Sini, responsabile diocesano per le missioni. Da don Cossu, in Africa, si sono avvicendati anche una sessantina di volontari laici, provenienti da diversi paesi della Gallura e dell’Anglona, i quali hanno lì prestato la loro opera ed aiuto per periodi di tempo più o meno lunghi. Alcuni vi si sono recati più volte.
Da La Maddalena sono andati da don Cossu, nella sua missione in Africa: Pier Carlo Acciaro, Tonino Canu, Nunzio Del Bene, Gianna Deiana. Per lunghi periodi e per molti anni è stato suo stretto collaboratore in Africa il poeta Pier Carlo Acciaro. La Missione ha ricevuto ingenti aiuti dai gruppi missionari diocesani come anche dal Gruppo Missioni di S.M.Maddalena coordinato da Anna Maria Gaspa.
mercoledì 21 febbraio 2018
In ricordo di don Ottavio
Parlare di don Ottavio, raccontare il suo essere sempre e comunque un "missionario" che praticava "il Verbo" fatto uomo in ogni sua azione mi è doveroso.
Io, Mariantonietta, malata di Parkinson, ho avuto la "grazia di conoscerlo.
Semplice, diretto, calmo, ironico.
Forte della sua "Fede" ha camminato sui percorsi più disagiati della vita, ha operato, coinvolgendo volontari, su quelle strade dove gli stessi uomini avevano piantato spine dolorose...HO avuto la fortuna di ascoltarlo...
Io, Mariantonietta, malata di Parkinson, ho avuto la "grazia di conoscerlo.
Semplice, diretto, calmo, ironico.
Forte della sua "Fede" ha camminato sui percorsi più disagiati della vita, ha operato, coinvolgendo volontari, su quelle strade dove gli stessi uomini avevano piantato spine dolorose...HO avuto la fortuna di ascoltarlo...
CRONACA OLBIA14 FEBBRAIO 2018
Olbia. Morto
l’ex cappellano del San Giovanni di Dio
Un
ricordo indelebile ANGELA DEIANA GALIBERTI
Olbia, 14 febbraio 2018 – Don Ottavio Cossu, storico cappellanodell’Ospedale San Giovanni di Dio di Olbia, è morto a 72 anni. Ieri
mattina, dopo aver celebrato messa a Viddalba – suo paese di origine, è stato
colpito un infarto mentre si trovava in casa.
Don Cossu ha lasciato
un bel ricordo in ogni paese in cui ha esercitato la sua missione cristiana:
oltre ad essere stato cappellano del primo ospedale olbiese e vice parroco
nella Cattedrale di Tempio, per anni ha vissuto in Africa – precisamente in Mozambico – dove ha cercato di dare sollievo
cristiano e materiale ai bisognosi.
Tante le opere di bene
fatte dal sacerdote sardo, tra cui la costruzione di scuole e pozzi, ma anche dare il via al microcredito agricolo nella missione di Kavà e l’avvio di una cooperativa per la lavorazione della ceramica nella parrocchia
di Kisangara Juu.
Profondo conoscitore della realtà
africana, don Cossu – una volta tornato in Sardegna – ha continuato ad
ascoltare la sua vocazione missionaria, senza mai smettere di raccontare
l’Africa: quella vera, quella che lui ha toccato con mano.
In un blog, don Cossu racconta le vicende africane delle missioni da lui visitate: un
racconto che si ferma il 6 gennaio 2018 con l’ultimo post dedicato ai serpenti
(animali molto diffusi nel continente africano, come sottolinea lo stesso
Cossu).
Nel post dedicato a sé
stesso, in cui racconta chi è e cosa ha fatto nella sua vita, don Cossu
descrive il suo primo incontro con il popolo makua, reduce da una guerra senza
fine: “Reduce da una guerra trentennale, il
popolo Makua sembra non sia capace di progettare, né di pensare al proprio
futuro. Indifeso, senza giustizia, né governo, nelle mani di chi ha soldi e
prepotenza, sempre pronto al furto e alla menzogna per sopravvivere. In
questa gente ho trovato un cuore grande e buono, che illumina il volto di luce,
affascina, conquista, e trascina chi ha il cuore semplice e desideroso degli
altri. Quei fratelli non hanno medicine per curarsi, né ospedali dove
ricoverarsi. L’acqua sporca che sono costretti a bere, le condizioni igieniche
dove vivono provocano malattie e morte. La buona volontà dei giovani non è
sorretta dai mezzi e la sete d’imparare non trova maestri che l’appaghino“.
Al rientro in Sardegna
ha anche fondato un’associazione: Noi una famiglia. L’associazione è formata da
“volontari che condividono il suo ideale di dedizione
agli altri per una crescita umanitaria, sociale e spirituale della persona nel
suo ambiente naturale“.
giovedì 15 febbraio 2018
Non un addio ma un ciao...
Carissimi fellower di questo blog
don Ottavio è venuto a mancare...
continuerò da sola quel cammino di narrare il vissuto da missionario in terra sua e in terra d'Africa.
Il suo operato dedito ai poveri, agli umili...agli ultimi, impreziosito da un silente e costante impegno, canta al cielo la purezza del suo cuore nel donarsi al Signore.
Una delle sue ultime pagine che ci ha lasciato
don Ottavio è venuto a mancare...
continuerò da sola quel cammino di narrare il vissuto da missionario in terra sua e in terra d'Africa.
Il suo operato dedito ai poveri, agli umili...agli ultimi, impreziosito da un silente e costante impegno, canta al cielo la purezza del suo cuore nel donarsi al Signore.
Una delle sue ultime pagine che ci ha lasciato
Aiutare
le persone
Si sa che la guerra porta con sé ogni tipo di male.
Uno dei tanti è la diffidenza. Quando
questa è accompagnata all’invidia sono
poche le speranze di salvarsi. Si rimane con i propri problemi , si diventa
ciechi e incapaci di giudizio anche quando tutto è chiaro e positivo. In questi
casi é compito del missionario andare incontro alle persone, creare opportunità
di riscatto ed essere sempre positivi, anche quando tutt’intorno porta in altra
direzione. Ovunque la guerra lascia mutilazioni di ogni tipo: persone con una
sola gamba, giovani con un braccio, bambini con malattie mentali, uomini e
donne con paralisi deformanti. Ovunque domina la sporcizia e l’assuefazione a essa.
Per alleviare simili mali é indetta una campagna di sensibilizzazione
promossa da una organizzazione italiana in favore di persone mutilati negli arti. Si tratta di presentarsi
all’ospedale di Namahaca per una visita preliminare e in seguito andare
all’ospedale di Nampula per l’applicazione della protesi. Tutto è gratis: viaggi,
visite, assistenza e controlli successivi. Come per le vaccinazioni o altri aiuti al centro di raccolta si attende
grande afflusso di malati. Si apre la campagna ma non si presenta nessuno,
nonostante circolino molti bisognosi. Si intraprende una seconda
sensibilizzazione capillare in modo personale in tutta la zona. L’iniziativa
abbraccia anche la missione di Kavà.
Io interpello un giovane e un anziano. Il primo è
Mauricio, frequenta assiduamente la comunità cristiana di Muipia. Con ardore si prepara per il battesimo e il matrimonio. A
lui manca metà della gamba sinistra che si era dovuta amputare a causa del
morso di un serpente quando, ancora bambino, fuggiva per salvarsi dai
guerriglieri. Mauricio è rispettato da tutti e l’intera comunità lo apprezza
per il coraggio e la forza che mostra nel lavoro. Il giovane accetta la
proposta con entusiasmo. Sogna di dover correre come un tempo senza portare
appresso bastoni o altro. Una cosa lo preoccupa: non sa come incollare il pezzo
mancante all’arto esistente. Gli sono spiegate le norme del caso. Il giovane chiede alcuni giorni di tempo per
riflettere e avvisare la fidanzata che abita lontano. Mauricio va a Chipene,
dove dimora la ragazza e non fa più
ritorno a Muipia. Agli amici confida che
non ritornerà più nel villaggio finché ci sarà “quel Padre”. Il giovane ha
paura di portare con sé una cosa che non gli appartiene (la protesi). Il bastone
che ha sempre fra le mani ormai fa parte
della sua persona e non lo può abbandonare. Incontrando il missionario è
obbligato a dare spiegazione e lui non vuole rivelare il suo segreto. Il
giovane, lontano dalla sua comunità si forma la famiglia e nessuno gli parlerà
mai più dell’arto mancante.
Al secondo interpellato mancano la gamba e il
ginocchio sinistro. Abilio, questo è il nome del signore in questione, è un
animista sui cinquant’anni. Durante la guerra, in una colluttazione col nemico
lo feriscono gravemente a una gamba con
coltelli e altro. Lui cura la profonda e
pericolosa ferita con radici e medicine tradizionali e la gamba sembra guarita.
Benché con atroci dolori lui vive tranquillo finché la ferita va in cancrena. All’ospedale
militare per salvargli la vita sono
costretti ad amputare la gamba e poi lo mandano a casa. Abilio non ha mai capito
il motivo per cui gli abbiano salvato la vita poiché in casi simili il ferito
era subito eliminato. In seguito il soldato si sposa alcune volte e ha dei figli. Le mogli lo licenziano dopo il
primo o il secondo parto con la motivazione che non lavora abbastanza. Abilio, stanco di cercare mogli, ora vive
solo. I figli, ammogliati e con figli anche loro, vivono nei villaggi
vicini e solo saltuariamente visitano il padre. Le molte vicende della vita lo
rendono diffidente e orgoglioso. Difficilmente si lascia aiutare. Cammina con
un bastone che serve anche come autodifesa quando i ragazzi si giocano di lui. In
particolare ci sono alcuni ragazzotti i
quali gli girano attorno imitando il suo modo di
camminare zoppicante. Lui si adira moltissimo e, sollevando per aria il bastone,
augura loro ogni sorta di disgrazia.
Non ammette scherzi sulla sua anomalia.
Quando é
convocato dal missionario si meraviglia che qualcuno si interessi a lui.
Curioso si presenta subito nella missione. Gli parlo della campagna in corso
per avere gratis la protesi che lo
renderebbe libero di camminare senza il bastone. Come Mauricio non capisce cosa
sia l’attrezzo che dovrebbe incollare alla sua gamba. Abituato oramai al
bastone non sa come lo possa abbandonare.
Nonostante i dubbi l’uomo si mostra contento e già s’immagina camminando
come un tempo. Per fugare ogni difficoltà ripeto più volte che non
c’è nulla da pagare, che sarà assistito in tutto e che sarà accompagnato in
ogni trasferta. Lui deve dare la sua
autorizzazione e all’ospedale firmare un foglio per garantire il consenso.
Abilio pensa per un attimo, osserva il mio volto, poi dice: “Quanto mi dà?” “Perché
mi chiedi questo?”, rispondo io, “ti do la possibilità di camminare bene come
tutti gli altri, non ti basta?”. “Padre”, replica lui, “se mi ha convocato
significa che lei guadagna dalla mia gamba e io voglio la mia parte”. Mentre
parla stende la mano aperta verso di me con un sorriso malizioso. Spiego nuovamente
il significato di quella campagna, assicuro la gratuità assoluta da parte di
tutti e che io non guadagno nulla. A
niente vale il mio discorso. L’uomo si
allontana per vivere col suo bastone.
mariantonietta
sabato 6 gennaio 2018
I serpenti...esperienza diretta..
Tutta l’Africa è disseminata di serpenti di ogni
misura e pericolosità. Ci sono serpenti piccoli che danno pochi minuti di vita
alla preda che morde. Ci sono i serpenti di due o tre metri i quali sono
pericolosi non perché mordono ma perché avvolgono la preda e la stritolano. C’è
anche un serpente verde innocuo lungo circa trenta centimetri. Tutti si possono incontrare
ovunque, per le strade, nei campi e all’interno di una abitazione. Preferiscono
i luoghi bui, sotto le foglie e in mezzo ai rami. Strano ma vero, c’è qualche
serpente che può mordere anche dopo morto e il suo morso è mortale. L’udito e
la vista degli indigeni scorgono di lontano la presenza di esseri che si
muovono in terra o sugli alberi. Con una
pietra o un bastone anche i ragazzi
riescono a difendersi bene. Sentiamo.
Nel pollaio
Si sente rumore inconsueto nel pollaio, le galline
si ritirano spaventate in un angolo, poi silenzio. Passa qualche minuto ed è calma
assoluta. Le guardie notturne si scaldano al fuoco acceso per
segnalare la presenza di qualcuno. Una guardia si alza improvvisamente e indica
a distanza di alcuni metri qualcosa che striscia. Il cobra, lasciato il pollaio,
si dirige verso la campagna. Le guardie
si alzano in piedi e impugnano il
machete e la lancia. L’animale aumenta la velocità ma è raggiunto da una lancia
che si conficca nella testa, bloccandolo a terra. La guardia si avvicina e assicura bene la
lancia in terra per fermare la preda,
poi tutti si siedono vicino al fuoco. Il rettile è lungo due metri e ottanta
centimetri ed è grosso abbastanza da ingoiare uno di loro senza alcuna
difficoltà. Con i primi bagliori della
luce gli uomini controllano il bottino e osservano che il serpente, dimenandosi
dalla stretta della lancia si svincola
dall’arma ma non riesce ad allontanarsi di molti metri. Nel preparare il
serpente per la padella, questo tipo di serpente è combustibile, le guardie trovano
nel suo interno una gallina ingoiata nel pollaio. Gli operai fortunati
commentano ridendo: “Guardi, padre, forse aveva fretta o è stato disturbato, l’ha
ingoiata così come l’ha trovata: sporca
e con le penne”.
Sui piedi
Sono seduto alla porta della cucina e scrivo con i
fogli e un libro appoggiati su una sedia che mi fa da scrivania. Ai piedi porto
le ciabatte facilmente accantonabili quando si è seduti. Mi esercito nella
lettura e scrittura del portoghese che ancora porta molta fuliggine nella mia
mente. Isolato dal resto del mondo odo solamente lo sbattere delle onde sugli
scogli a pochi metri di distanza. Avvolto dalla solitudine dell’ambiente e
immerso nella lettura, sento sui piedi un fresco fuori stagione e qualcosa che
scorre. E’ un fresco gradevole per cui, impassibile, permetto a ciò che dà sollievo faccia il suo
corso. Con la coda dell’occhio scorgo
sulla mia sinistra un serpente di circa venticinque centimetri allontanarsi. Mi alzo
per seguirlo mentre striscia ma è già
scomparso nella sterpaglia. La sensazione di fresco è piacevole così com’ è
grande il pericolo corso. I ragazzi mi dicono che se mi avesse morsicato quel
tipo di serpente mi avrebbe lasciato poche ore di vita. Ringraziamo la Madonna
dello scampato pericolo.
Uscito
dalla cunetta
Rientro da Nampula nel primo pomeriggio nella Land
Rover Defender vecchio tipo. La macchina è forte, alta, stile camioncino. Viaggia
con me un giovane indigeno che mi ha guidato nelle vie della città. La strada è
sterrata ma abbastanza agevole, è l’unica via percorribile con il fuoristrada. Siamo
sulla via Nampula – Corrane, quella che prosegue per Angoche. Nonostante sia
un’ arteria stradale importante, nel 1995 non sono frequenti le macchine.
Transitano soltanto i mezzi pubblici che collegano Nampula con Corrane e Liupo,
poi Nampula Angoche. Passano pochissimi mezzi privati e pochi camion di ditte
impegnate nella sistemazione della strada. Il silenzio degli automezzi
favorisce la libera circolazione dei
pochi animali ancora esistenti.
Lasciata la città da una ventina di chilometri in
lontananza vedo qualcosa come in un film. Qualcosa s’ innalza sul ciglio della
strada. La macchina si avvicina e io vedo un serpente che si eleva dritto al di
sopra dell’altezza della macchina mentre la parte terminale del corpo fa due
cerchi concentrici nella cunetta. La testa un po’ schiacciata fa un giro
all’intorno per osservare cosa lo circonda. Dalla bocca esce la lingua lunga
che bagna velocemente le labbra, quasi pregustando il suo bocconcino prelibato,
poi si vede il rettile, come una rigida canna, cadere in cunetta da dove era
apparso. Istintivamente commento: “Che bello, peccato che sia durato poco
tempo”. Mi interrompe il mio compagno di
viaggio: “Padre, può essere bello un serpente pericoloso?”
Dopo anni io lo osservo sempre davanti agli occhi,
maestoso, bello, piacevole a vedersi e poco a giocare con esso.
In casa
Che la casa della missione sia sempre aperta a tutti
è risaputo ma nessuno sogna di dare accoglienza ad ospiti indesiderati senza uno
specifico invito o un previo avviso.
Nella missione di Moma, in provincia di Nampula vive da molti anni un
giovane volontario spagnolo. Provvede da solo alle necessità più urgenti della
popolazione in una zona molto grande e disagiata. Durante la guerra lavorava
con un gruppo di missionari partiti subito dopo il conflitto. Martinez, questo il nome del
giovane, rimane sul campo e continua a lavorare. Benché sollecitato dalle
autorità religiose garanti a lasciare la zona perché diventata pericolosa per la sua solitudine, lui non si arrende. “Ho
lavorato durante la guerra”, dice, “perché abbandonare ora che la guerra è
finita?” Padre Mario, l’unico sacerdote
della missione, incontra le comunità una
volta all’anno per l’amministrazione dei sacramenti. Il missionario vive in una
zona lontana inserito in un gruppo missionario.
Visito
Martinez con padre Mario. All’ingresso della missione si vede subito un
serpente lungo più di tre metri, grosso, imbalsamato. E’ un monumento che
domina tutta la stanza spaziosa. “Non aver paura, padre Ottavio”, mi rassicura
il padrone di casa, indicandomi il rettile, “è morto e stecchito, mi fa
compagnia. A me rappresenta la vittoria delle vittorie”. Ci sediamo su delle
sedie di vimini intorno ad un tavolino anch’esso di vimini . Ci offre
dell’acqua fresca e racconta: “E’ un pomeriggio, mi riposo su quella sedia quando sento un rumore delicato ma strano alla porta. Non
aspetto nessuna visita e non c’è in programma alcun incontro. Mi alzo e apro la
porta. Entra strisciando un grosso serpente che si nasconde sotto il letto,
lungo la parete. Salto per lo spavento e realizzo subito il pericolo. Il
serpente in questione non è pericoloso quando morde ma, avvolgendosi alla preda
la stritola.
Con una mano
afferro un bastone, con l’altra una fiaccola e lo affronto. Lottiamo, come si
sul dire, corpo a corpo. Sudo in tutto il corpo non per il caldo afoso ma per
la tensione. In un attimo sento i vestiti bagnati e attaccati alla pelle. Mi
difendo con la fiaccola, col bastone tento di colpirlo alla testa. Esso si
innalza e si butta a terra con velocità per cui è difficile colpirlo
mortalmente. Nessuno mi può aiutare. Tento e ritento di colpirlo alla testa. Si
muove prontamente, spostandosi in altezza e lateralmente. Quando apre la bocca e la sua lingua esce e si ritira con
una velocità incredibile. Il sangue si gela nelle mie vene. Sono stanco ma devo
continuare la lotta, è questione di vita o di morte.
Se mi fermo finisco nella pancia del rettile e sparisco dalla faccia della terra senza
lasciare un segnale. Mi affido alla Madonna e al Signore. Come per incanto
riacquisto vigore e continuo la lotta.
Anche il serpente da segni di stanchezza. Riesco a colpirlo alla testa e si
ferma per un attimo. Approfitto e picchio ripetutamente sul capo finché lo
schiaccio. Mi fermo e vado fuori a riposarmi. Chiudo la porta per non lasciar
fuggire il rettile. Ritorno dopo alcune
ore e incontro il serpente non dove l’ho lasciato ma all’ interno della camera.
Mentre prego guardo il serpente e ringrazio i miei protettori per avermi
salvato. Vado nella cappella dove c’è il Santissimo, mi siedo in silenzio, non
riesco a dire nulla ma penso alla lotta quale segno di ringraziamento”.
Mertinez mi guarda e ride e dice: “Reverendi padri,
ora prepariamo il pranzo”. A Martinez un ringraziamento grande come la fatica
quotidiana che sostiene per la testimonianza di fede e la dedizione
incondizionata alla gente.
giovedì 21 dicembre 2017
"Grazie Padre!"
Negli anni di permanenza in missione noto che gli
avvenimenti speciali accadono la mattina
presto quasi a scongiurare che si confondano con i fatti della giornata e perdano il loro prezioso
valore. Tutti sanno che viaggio spesso
e mi alzo quando ancora regna il buio della notte. Chi mi vuole incontrare
prima della partenza deve camminare di notte e attendere che apra la porta
della canonica per salutare il nuovo giorno. Alle cinque smontano le guardie
notturne e io sono da loro per congedarle.
Una mattina invernale nel salutare quegli uomini stanchi e intirizziti
dal freddo, gli stessi mi avvisano che sotto il mango poco lontano
dall’abitazione, aspettano da tempo Olgisa e Nziko. Questi sono bagnati non
dalla pioggia ma dalla rugiada notturna scesa abbondante per sostituire l’acqua,
assente da molti mesi. E’ una rugiada
benedetta da Dio per tenere sempre verdi i grossi alberi di mango e di cajù.
Nel cielo la luna è piccola
e dà spazio alla moltitudine di stelle che ricamano con mani di fata l’immenso
spazio. L’aurora inizia a sostituire il chiarore della luna e delle stelle. Solo
un Dio grande e immensamente buono può inventare simili bellezze. Questa
mattina lo splendore e l’immensità del
firmamento custodiscono altra bellezza, altra delicatezza che l’animo umano possiede. E’ la
luce e la delicatezza dell’amore che si fa attenzione e ricompensa.
Nziko è un giovane sui vent’anni, di media statura,
robusto, di bell’aspetto, non eccessivamente nero ma castano scuro. Olgisa Ha
un comportamento signorile, non alto, sorridente con lo sguardo rivolto in
basso come è consuetudine per le donne makwa, Non interviene nella discussione
eccetto quando è sollecitata dal marito. Non interviene per rispetto del marito
e del missionario ma anche perché non conosce il portoghese. Dal suo comportamento
fa capire che conserva nel cuore
qualcosa di grande mista a una felicità che sprizza da tutti i pori. Sulle
spalle porta il solito fagotto con
dentro l’ultima creatura che dorme ignara di tutto e sicura della protezione
materna. Il primogenito ha quattro anni e sta accanto al padre, stringendosi forte alle
sue gambe. La famiglia viene da Muripa, un villaggio distante venti
chilometri dal centro. Hanno camminato per diverse ore perché quelle strade si percorrono solo a piedi o in bicicletta. Loro
non hanno soldi per comprare il mezzo di trasporto e si servono del cavallo di
san Francesco. Non possiedono proprio niente. La loro vita è ricca solo di
amore, di rispetto, di fedeltà e di attenzione reciproca. Doti veramente rare
in un
ambiente che esce dal turbine della guerra. Non dico che non esistono
amore, attenzione, rispetto, fedeltà ma
che non si trovano ovunque. La guerra ha
costruito un ambiente di diffidenza, di odio, di malavita. In quel periodo
anche in famiglia ognuno doveva pensare a salvare prima se stesso, poi i
congiunti.
I due al mio arrivo si alzano in piedi e mi salutano,
lui in portoghese, lei in Makwa col saluto tipico del luogo: “ Moxelelya”,
“koxelelya kahiki nywo”, rispondo io, (
ha riposato bene? Io sì non so lei). Insieme mi rivolgono il saluto riverenziale
riservato alle persone di grande rispetto o a quelle vecchie: “Moscamolo”, “ah-
ah”, rispondo io, (come sta?, sto bene). Senza attendere altri discorsi chiedo
dove sono diretti e se hanno molti
bagagli. La mia domanda è giustificata perché è norma che la presenza mattutina
di persone provenienti dai villaggi lontani è sempre per chiedere passaggi. Alle
volte è l’intera famiglia a muoversi
con fagotti e fagottini che da soli riempiono la macchina. Questa volta mi sono
sbagliato, molto sbagliato così da rimanere confuso di tanta delicatezza che i
due mi rivolgono. Ricordo di aver riscontrato in precedenza solo qualche altra
volta una simile sensibilità.
“Padre, non chiediamo nulla per noi, da qui
rientreremo a casa”, dice Nziko con una espressione soddisfatta, quasi contento
perché il padre questa volta non ha indovinato il motivo della loro presenza.
“Le chiediamo di ascoltarci per un solo
minuto. Questo è un regalo per lei”. Mentre parla mi porge di lontano una
gallina e la signora alcune uova, e riprende:
“La vogliamo ringraziare perché l’anno scorso ha battezzato il nostro figlio e ha benedetto
le nostre nozze. Attendevamo quel giorno
da molto tempo. Il catechista non ci ammetteva mai ai sacramenti perché mancavamo
spesso alle lezioni. Lei ci ha accettato
ugualmente, considerando la nostra assidua presenza alle celebrazioni e
perché abbiamo imparato a casa le preghiere. Le vogliamo dire che adesso
conosciamo tutte le preghiere e alle volte recitiamo insieme la corona. La
creatura accovacciata sulle spalle di mia moglie è nata dopo il matrimonio religioso. Noi non abbiamo dimenticato il regalo che lei ci ha donato e oggi siamo venuti per ringraziarla:
grazie, Padre.
Potevamo
venire prima ma non avevamo nulla da
offrirle e per questo abbiamo preferito attendere il momento giusto, inoltre
mia moglie non poteva camminare molto”. La donna slega il fagotto che porta sulle
spalle annodato sulla pancia. Mi mostra
una creatura che dorme beatamente, dolce come la luna che sta per andarsene.
Finalmente Olgisa mi guarda nel volto, mostrandomi lo splendore degli occhi
incastonati in un viso ampio e lucente. Come
in un coro i due ripetono: “Koshukuru” (grazie). Io ringrazio loro e ricambio
il dono con del sale, una bottiglietta
di olio e una busta di riso. Difficilmente il sale si può comprare, l’olio non si trova affatto
nella mensa della gente e il riso è per i giorni di festa. Ricambiare il dono, secondo le proprie
possibilità, è un gesto che indica apprezzamento dell’offerta ricevuta.
In un ambiente dove esistono solo doveri, dove per
necessità o “per virtù” la ruberia è di
casa, incontrare una simile finezza convalida e incoraggia l’azione missionaria
intrapresa e riempie di gioia il cuore.
martedì 12 dicembre 2017
Giustizia sia fatta...
Nlaika è un ladro di professione,
un residuo malavitoso della guerra con una sua banda conosciuta in tutta la
regione. Non possiede armi per difendersi ma solo la scaltrezza unita alla
velocità delle gambe. Il suo gruppo non è l’organizzazione peggiore ma quando
in zona manca qualcosa ci si riferisce a lui in modo quasi sicuro.
Capita che muore un suo familiare e lui è accanto al defunto per ricevere la consolazione (le condoglianze) che il vicinato e i conoscenti porgono ai congiunti. Tutti sono meravigliati e contenti per la sua presenza. Forse il giovane ha cambiato vita, pensano in molti. Termina il funerale, si rientra a casa e si trova l’abitazione del defunto ripulita di ogni cosa. Sono scomparsi gli abiti e i pochi soldi che il defunto aveva conservato, è scomparso anche Nlaika.
Capita che muore un suo familiare e lui è accanto al defunto per ricevere la consolazione (le condoglianze) che il vicinato e i conoscenti porgono ai congiunti. Tutti sono meravigliati e contenti per la sua presenza. Forse il giovane ha cambiato vita, pensano in molti. Termina il funerale, si rientra a casa e si trova l’abitazione del defunto ripulita di ogni cosa. Sono scomparsi gli abiti e i pochi soldi che il defunto aveva conservato, è scomparso anche Nlaika.
Un’altra volta sulle rive del
fiume Mekupuri, vicino a Memba, si trova il cadavere di un giovane sconosciuto.
Si rassomiglia a un ricercato. La gente pensa a uno dei tanti malavitosi che
girano in cerca di cibo. La polizia non concorda con questa versione. L’unico che potrebbe aiutare gli
investigatori é Nlaika che per caso è presente nel villaggio. Lo si chiama per
identificare la salma, pensando che il ritrovato faccia parte della sua banda.
Il giovane si presenta, saluta l’amico disteso per terra, lo insulta perché non
è riuscito a sopravvivere, (questo modo di fare rientra nell’ antica tradizione
locale), lo spoglia degli stracci che porta addosso per essere sicuro
della persona, lo riveste, rivela la sua
identità e va via. Tutto avviene alla luce del sole con la sorveglianza dei
poliziotti. Si dilegua Nlaika e appare
Adelino, uno sconosciuto alla ricerca del suo amico scomparso da oltre dieci
giorni. Lo cerca perché gli ha portato via i suoi risparmi. Adelino vede la
ressa della gente, si avvicina e riconosce nel giovane disteso a terra il suo
mico. Saluta il cadavere e cerca i suoi risparmi ma non trova nulla di quanto
cerca. Adelino si allontana, esigendo dai poliziotti il suo denaro. I militi
ordinano di sotterrare il cadavere da qualche parte e iniziano la ricerca di
Nlaika. Questi non ha mai conosciuto il malcapitato e al momento
dell’identificazione inventa tutto. Sugli agenti cade un velo di tristezza e si
dubita della identità rivelata dai due. Nel frattempo Nlaika si è volatilizzato, lasciando detto che se la
polizia vuole il bottino deve cercarlo
nelle sue mutande, non nella persona del defunto.
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Spesso siamo propensi a pensare che
nella vita di un disgraziato che non conosce altro se non vendetta e furto, ci
possa essere spazio per un briciolo di pietà. Nella nostra mente rimane lontano
l’idea che il suo cuore sia capace di atti di benevolenza. Alle volte non è
così. Scopriamo allora che anche il
cuore più indurito nasconde, nei remoti meandri, la possibilità di tenerezza e
di misericordia.
A Nacala Porto, distante da Memba
ottanta chilometri, è rapinato un
corriere di una grossa azienda. Subito viene dato l’allarme e si iniziano le
ricerche della banda teppista senza
risultato. Come sempre si pensa a Nlaika. L’indagine non dà nessun esito positivo. Nei villaggi vicini non c’è traccia del
ricercato. Dopo lunghe e accurate ricerche si pensa di applicare una norma
giuridica in vigore nell’ agire comune della polizia: Arrestare i parenti del presunto colpevole finché questo non si
consegna spontaneamente. La polizia locale si presenta, dunque, in casa della
povera mamma di Nlaika e, non avendo trovato il ricercato nella sua abitazione,
la portano in prigione. Gli agenti vanno anche in casa di Ancha,
cugina del “buon” fuorilegge. Buono perché oltre il furto e qualche avventura amorosa
per sedare il proprio istinto non é
capace di fare altro. Gli uomini al servizio della legalità, sicuri di
incontrare nell’abitazione il fuggiasco, pretendono di controllare la casa senza un mandato di perquisizione. Ancha non è una
donna facilmente malleabile o timorosa. Lei non ha niente a che fare con il
cugino, è sicura di non proteggere nessun ricercato. Inoltre vuole difendere le
sue cose e i suoi figli da quegli uomini senza scrupoli vestiti di autorità. La
signora si appella alla
tradizione secondo la quale una donna gravida o che allatta la propria
creatura non può essere toccata da nessun uomo. Forte della tradizione la
signora si mette all’ingresso dell’abitazione allattando il figlio di due mesi
e si rifiuta categoricamente di far perquisire la casa.
“Il padrone di casa è assente”,
dice Ancha, “io non ho nessuna autorizzazione per far entrare nell’abitazione alcuna persona, dentro non ci
sono ricercati, voi non entrate”. Con fare altezzoso gli agenti rispondono:
“Noi abbiamo l’autorità di cercare nelle case il latitante, siamo sicuri che Nlaika è protetto
da te. E’ per questo che ti opponi alla perquisizione”. “Mi sento offesa quando
dite che proteggo i delinquenti. Io e mio marito abbiamo sempre vissuto del
nostro lavoro e non siamo mai venuti nelle vostre case a mendicare. Siamo
persone oneste e voi non entrate in questa casa per nessun motivo”, replica Ancha. “Se non ci fai entrare ti mettiamo in
prigione”, continuano i poliziotti. “Vista la vostra prepotenza entrate, se
avete il coraggio, tuttavia ricordate che il padrone di casa è assente”,
insiste la signora. Mentre parla, lascia
libera la porta. La donna in questione è anche capo tribù e quindi un’autorità
morale. Gli agenti si guardano in volto, sono meravigliati per la sfida rivolta
da Ancha. Pensano a eventuali feticci e
hanno paura, tuttavia non possono arrendersi e dichiararsi sconfitti. “Noi non
entriamo in casa ma tu e i tuoi figli verrete con noi in prigione”. Ancha non si oppone, chiude la porta, prende i
suoi due figli, mette in mano al figlioletto più grande una manciata di
arachidi, si sistema bene sulle spalle il figlio più piccolo. Avvisa la vicina
di casa dell’accaduto e raccomanda d’informare il marito quando rientrerà dal
lavoro. La coraggiosa signora si avvia alla prigione scortata dalla
polizia. In prigione trova anche la
madre di Nlaika. Al contrario, il
latitante non si trova da nessuna parte e i parenti rimarranno in prigione fino a che il
malvivente non si farà vivo. Arriva la sera, il comandante considera la situazione della giovane donna e dei
figli e li rilascia in libertà. In carcere rimane la vecchia madre del
fuggiasco. Il giovane viene informato della carcerazione
della madre per sconta la sua pena. Subito si costituirsi. “Non è bene che mia
madre sia prigioniera per colpa mia, gli altri si, mia madre no”, dice il
malvivente che riscopre per un po’ di tempo la pietà e la debolezza del cuore.
sabato 9 dicembre 2017
La convivenza tra Religioni
Sono tante le moschee presenti nel territorio della
missione di Kavà, molte di più che le cappelle cristiane. I musulmani ferventi
s’ incontrano a pregare cinque volte al
giorno e ogni venerdì quale giorno da santificare. Chi non può andare nella
moschea prega dove s’ incontra, in ginocchio con la faccia che tocca la terra.
Quando sono i fedeli sono numerosi si
mettono uno accanto all’altro ben squadrati. Osservano rigorosamente il digiuno
e girano con la loro corona, ripetendo
in continuazione “Alláh è grande, Alláh è forte, Alláh è
potente….”. Nella recita di questa preghiera si nominano gli attributi
convenienti alla divinità. Ci sono i
musulmani meno ferventi che si presentano alla preghiera quando ne hanno voglia
o quando gli impegni di lavoro lo permettono. Ci sono pure quelli ai quali la
religione non importa nulla e vivono senza niente praticare. Gli ultimi forse sono i più numerosi. Anche
per loro la sopravvivenza prevale sulla
pratica religiosa.
Non è raro riscontrare questo ultimo atteggiamento
persino negli Iman (i capi delle comunità musulmane). Ricordo un mio falegname,
iman della comunità di Mirepane, il quale non è mai stato visto pregare o fermarsi nelle ore della preghiera.
Di venerdì mai mi ha chiesto di andare nella vicina moschea per l’orazione
comune. Lo stesso si dica per i musulmani e i loro capi che lavorano nei miei
campi durante la preparazione della terra per la semina o durante il raccolto.
Lavorano insieme ai cristiani e agli animisti senza alcun problema, pensando
solo a ricevere il salario. Sono uguali
l’impegno e la moralità nel lavoro anzi, ricordo dei casi in cui ad istigare e a
organizzare il furto durante il lavoro sono stati proprio i cristiani e non i
musulmani. Insomma, davanti alla difficoltà di salvarsi tutti siamo uguali
poiché la sofferenza e la vita sono di tutte le religioni.
Fra gli amici più fidati incontrati al mio arrivo in
parrocchia sono un cristiano e il suo
amico musulmano. Spesso sono accusato
dai cristiani, mai dai musulmani. Nei grandi negozi di Nacala sono sempre i
musulmani a darmi subito fiducia, i cristiani
rimangono distanti e alle volte ostili. Dei tanti giovani dello
studentato solo alla fine del corso si sa chi é cristiano o musulmano poiché tutti rispettano le regole allo stesso modo e frequentano
le cerimonie cristiane dello studentato. E’ il caso di Josè il quale, alla fine dei tre anni di
permanenza nel gruppo, chiede il battesimo, assicurandomi che la famiglia è
contenta della decisione. Mai aveva lasciato trapelare il dubbio che non fosse
di famiglia cristiana. Diversa storia ha
Mario il quale passa da responsabile dei giovani cristiani alla pratica
islamica a causa della seconda moglie musulmana. Considerata l’esperienza
precedente, e per legarlo ancora di più al nuovo ambiente, l’iman confida subito a Mario la
direzione dei giovani musulmani.
Nella pratica della poligamia si annulla la
religione e nel matrimonio si passa da una religione all’altra molto
facilmente. Jacob è figlio di convertiti, è educato nella
famiglia impegnata al completo nella comunità e nella parrocchia. Trascorre il periodo degli studi
nello studentato della missione. Con allegria e attenta preparazione contrae
matrimonio cristiano con una giovane anch’essa cristiana. Dopo alcuni anni di
serena di vita matrimoniale diventa poligamo. Prendendo come seconda moglie una
musulmana, Jacob abbandona la chiesa cattolica e passa alla
moschea. La prima moglie accetta la situazione ma continua a praticare la sua
fede cristiana. Virgilio è un giovane cristiano, si sposa con una musulmana
convertita. Per la sua conversione é
felice la famiglia musulmana. Alla cerimonia religiosa è presente tutta la
tribù, alcuni ai margini dell’assemblea altri partecipando attivamente.
venerdì 8 dicembre 2017
Preghiera dei genitori
O Padre amoroso
i nostri figli non sono i nostri figli,
sono figli e figlie della vita.
Nascono per mezzo di noi ma non da noi. simili a noi,
Sono i tuoi.
Dimorano con noi e tuttavia non ci appartengono.
Possiamo dare loro il nostro amore ma non le nostre idee,
perchè essi hanno le loro.
Possiamo dare una casa al loro corpo
ma non alla loro anima,
perchè la loro anima abita la casa dell'avvenire
che noi non possiamo visitare
nemmeno nei nostri sogni.
Possiamo sforzarci di tenere il loro passo
ma non pretendiamo di renderli simili a noi,
perchè la vita non torna indietro
nè può fermarsi a ieri.
Noi siamo l'arco dal quale, come frecce vive,
i nostri figli saranno lanciati nell'avvenire:
Permetti, o Padre,
che l'inclinazione della nostra mano di arciere
sia diretta verso Te e loro arrivino a Te,
dimorino in Te. Amen
i nostri figli non sono i nostri figli,
sono figli e figlie della vita.
Nascono per mezzo di noi ma non da noi. simili a noi,
Sono i tuoi.
Dimorano con noi e tuttavia non ci appartengono.
Possiamo dare loro il nostro amore ma non le nostre idee,
perchè essi hanno le loro.
Possiamo dare una casa al loro corpo
ma non alla loro anima,
perchè la loro anima abita la casa dell'avvenire
che noi non possiamo visitare
nemmeno nei nostri sogni.
Possiamo sforzarci di tenere il loro passo
ma non pretendiamo di renderli simili a noi,
perchè la vita non torna indietro
nè può fermarsi a ieri.
Noi siamo l'arco dal quale, come frecce vive,
i nostri figli saranno lanciati nell'avvenire:
Permetti, o Padre,
che l'inclinazione della nostra mano di arciere
sia diretta verso Te e loro arrivino a Te,
dimorino in Te. Amen
giovedì 30 novembre 2017
Il Natale in "Cuzina"
Buongiorno a tutti.
Oggi è il primo giorno di Dicembre il mese del Natale.
Propongo il messaggio natalizio vissuto dagli abitanti di Santa Maria Coghinas lo scorso anno.
Santa Maria Coghinas detto in gallurese "Cuzina" è un piccolo paese di 1400 anime.
Tra morbide colline nella "Bassa valle del fiume Coghinas, nord Sardegna, è sito tra Valledoria e Viddalba.
Auguri di pace e serenità
https://youtu.be/w8g0_lH68gs
Oggi è il primo giorno di Dicembre il mese del Natale.
Propongo il messaggio natalizio vissuto dagli abitanti di Santa Maria Coghinas lo scorso anno.
Santa Maria Coghinas detto in gallurese "Cuzina" è un piccolo paese di 1400 anime.
Tra morbide colline nella "Bassa valle del fiume Coghinas, nord Sardegna, è sito tra Valledoria e Viddalba.
Auguri di pace e serenità
https://youtu.be/w8g0_lH68gs
Per la morte di un amico
La morte di una persona cara è sempre un trauma. In
chi rimane su questa terra essa segna un altro stile di vita: Si lasciano delle
abitudini per prenderne altri, si innestano ricordi benevoli e, alle volte,
rimorsi dolorosi. Il vuoto lasciato da chi parte non si può colmare perché non
si sente più la voce, mancano le lamentele o gli apprezzamenti per i servizi
prestati. Si prestano ad altri le
attenzioni che prima si prodigavano a
chi non è più. Nessuno può sostituire la persona cara. Eppure quella persona è
viva, la si sente accanto, si parla con lei, a lei si chiedono consigli, si
sente la risposta, ancora si lavora insieme. Tutto avviene in modo differente,
misterioso ma reale nel cuore e nell’anima.
Ora accompagniamo il nostro fratello all’estrema
dimora. Lui entra a far parte delle persone che godono la salvezza assicurata
da Cristo morto e risorto.
Confortato dal vangelo di oggi che ci assicura che
le forze del male non prevarranno mi è caro pensare il fratello nella gloria di
Dio, assicurata a tutti coloro che si affidano a Lui.
Non
mi è difficile vedere la vita di zio Pietrino in quella di Giobbe.
Questo era un personaggio biblico facoltoso,
buono, attento alla famiglia e ai sudditi. Va in fallimento, perde tutto, anche
la salute. Il suo corpo si copre di piaghe e tutti lo invitano a maledire il
suo Dio che ha permesso una simile situazione. Al contrario Giobbe risponde: Oh, se le mie parole si scrivessero!
Se s’ imprimessero sulla roccia con stilo di ferro e con piombo! Io so che il
mio redentore è vivo e che ultimo si ergerà sulla polvere. Quando il mio corpo
si sarà disfatto con questi miei occhi io, io stesso Lo vedrò. Giobbe va oltre
il momento penoso che vive, considera le sue sofferenze non fine a se stesse ma
in relazione della vita che troverà in Dio dopo l’esperienza dell’annullamento
del corpo. Giobbe vive nel desiderio l’esperienza della morte e della
resurrezione. Quanto detto da Giobbe si realizzerà in ciascuno di noi con la
potenza del Cristo morto e risorto.
Se non
avessimo questa certezza a che servirebbe la lotta della vita del nostro
fratello che accompagniamo all’estrema dimora? Quale ricompensa per una
esistenza spesa per la famiglia, nel portare avanti una famiglia di nove figli
dei quali otto vivi? Nell’educarli al lavoro, all’unità, al servizio e
generosità fino ad assicurare una dimora a ciascuno? Quale ricompensa per il
sudore versato nell’attività costante e lungimirante della sua vita? A che
servirebbe ora l’amore, la fedeltà, la dedizione alla moglie per i lunghi e
duri anni trascorsi insieme? Dove è finita l’amicizia con i colleghi di lavoro? Quale frutto ha potuto cogliere dalle gioie e dalle
fatiche di una vita se gli ultimi anni li ha trascorsi nell’incoscienza e alla
mercé di tutti? Certo, riceveva amore, attenzione, servizio costante ma lui non
ne era consapevole.
Per chi guarda solo alla terra e non solleva lo
sguardo al cielo, oltre il travaglio delle sofferenze tutto si risolve in un
autentico fallimento. Per i cristiani, al contrario, è il prezzo di una
eternità beata. Per noi grida ancora Giobbe che ricorda: Il mio Redentore è
vivo e ultimo si ergerà sulla polvere
(la polvere dei nostri corpi e delle realtà
terrene). Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne vedrò Dio, io stesso, i miei occhi lo
contempleranno così come è. Qui sulla terra paghiamo un prezzo altissimo perché
la ricompensa che ci aspetta è infinita, eterna.
giovedì 16 novembre 2017
Poesia...Un mattino
...un mattino,
quando la natura
dorme ancora,
me ne andrò...
...in silenzio...
Il mio cuore
avrà la stessa emozione
di quando arrivò
in questa Terra,
ove uccellini
attendono
la Primavera.
...Un mattino me ne andrò
in silenzio...
portandomi un carico
d'amore
Pier Carlo Acciaro
Memba 10 nov. 1999
L'elezione dell'anziano di Napako
Elezione dell’anziano di Napako
Napako è una piccola comunità cristiana sulla strada
Kavà – Alua. L’anziano della comunità è un vecchietto del tempo coloniale che
governa con il terrore dei feticci
(malocchio). Tutti hanno paura di lui. Ciò che lui decide è legge e non accetta alcuna
interpretazione a ciò che dice. I paurosi gli ubbidiscono, alcuni si
allontanano, i musulmani e gli animisti non si avvicinano alla cappella per
timore. Tutti sono stanchi della sua presenza. Vorrebbero cambiare ma come
dirlo al Padre poiché l’anziano gli sta sempre al calcagno? Ci sarebbe uno col quale sostituirlo ma questi
non accetta, sempre per paura. Ci sarebbe un’ alternativa: affidare a Càssimo, animatore di zona, anche l’incarico di
anziano. La comunità non lo ritiene opportuno perché si accumulerebbe troppo
potere nelle mani di uno solo. Accanto a lui c’è anche la moglie chiacchierona e autoritaria. Arriva il momento
propizio e il missionario convince il vecchio responsabile a lasciare
l’incarico. Prima di licenziarsi l’anziano
indica il suo successore nella persona
di Swardi Mulakya e lo presenta all’assemblea come già eletto. I fedeli, pur con la paura di una reazione
pericolosa dell’anziano rinunciatario, non si sentono vincolati e scelgono un altro con voto segreto alla
presenza del missionario. Viene eletto Ramiro Loja, il catechista della terza
tappa, è il catechista che prepara all’ammissione ai sacramenti. L’assemblea si
mostra finalmente libera, confidando nella forza e nella libertà del
missionario.
L’eletto inizia a tremare, è smarrito, vorrebbe
rifiutare, diviene immobile, il suo sguardo passa dall’altare al missionario e
poi fissa un punto sul pavimento. Confesserà più tardi che in quel momento
desiderava sprofondarsi nella terra e non vedere più nessuno. La cerimonia di insediamento prevede
che l’anziano uscente e il nuovo eletto siano seduti uno
alla destra e l’altro alla sinistra del celebrante. E’ impressione di tutti che
l’eletto sia afferrato dal tormento dell’ufficio da svolgere all’altare e dalla
paura di dover morire a causa del suo predecessore. La forza del padre che
l’avrebbe protetto non lo rasserenava. Il
missionario chiede il consenso a Ramiro per procedere all’investitura e lui non
risponde. Il volto dell’eletto diventa lucido per la paura, il suo sguardo
assente è rivolto alla terra, ora fisso su un punto ora rivolto verso la porta.
Sembra sentirsi male. L’animatore di zona lo incoraggia e ricorda che anche lui
era stato minacciato di morte quando l’avevano
eletto alla carica zonale, ma sono passati più di venti anni e ancora è vivo. Poi
dice: “Non preoccuparti, la comunità è con te, non avere paura di nessuno”. Il
missionario sospende l’incontro e incarica Càssimo di sostituire l’ eletto per un mese.
Alla scadenza del mese il missionario è nuovamente nella comunità per la presa di possesso del
nuovo anziano. E’ presente tutta la comunità eccetto l’anziano decaduto. Questo,
insieme alla sua famiglia e alla famiglia di Swardi Mulakya, cambia zona e non
fa più ritorno in paese. In seguito si
saprà che, appena superato il confine della missione, senza avvisare
alcuna autorità, ha fondato un’altra comunità con i parenti e gli amici. Questo
è un atteggiamento tipico di chi perde il potere nel proprio ambiente e non
spera di ricuperarlo. Tutto volge al meglio, eccetto per Ramiro che è sempre
incerto e pauroso, anzi più incerto e pauroso di prima. Occorre un colloquio a
tre: il missionario, il responsabile di zona e l’eletto. Il nuovo eletto
presenta le sue difficoltà che vengono subito
risolte dall’autorità dell’animatore di zona. Approfittando dell’assenza
momentanea dell’animatore di zona, Ramiro mi confida che l’ostacolo maggiore è
proprio lui, Càssimo, poiché ora si sente defraudato del posto di
anziano. Capisco che occorre un mio discorso rassicurante Ramiro e che metta
paura nell’animatore.
Alla presenza dei due e dell’animatore parrocchiale inizio
il “trattamento” contro il malocchio. Naturalmente
è una cerimonia inventata sul momento perché l’unico rimedio a questa malattia
mortale è l’autoconvinzione che non esiste il malocchio. Controllando le
reazioni dei tre, li faccio sedere
davanti a me e prendo nelle mie mani la mano destra dell’anziano, la stringo
forte in modo che lui senta bene la presa. Raccomando ai tre di pensare solo a
ciò che accade tra noi, allontanando ogni altra preoccupazione o desiderio. Guardo
fisso gli occhi di Ramiro e invito i tre a guardare solo i miei occhi e a
pensare solo a me. Ecco il discorso che si rivela persuasivo ed efficace, almeno per un lungo
periodo:
“Conoscete
l’importanza del momento. Siamo qui per
allontanare da noi e dalla comunità cristiana ogni tipo di maleficio.
Sapete che al bianco e al missionario
non attaccano i feticci né alcun’’altra forma di maledizione. Come vedete ora
sta davanti a voi un bianco che è missionario e porta in sé ogni forma di
difesa per lui e per coloro i quali lavorano con lui. Voi avete lavorato da
sempre con il missionario, avete piena fiducia nel Signore Gesù, che ha vinto
la morte e il male. Niente è impossibile a chi vince la morte. L’unico rimedio
per superare il male è la preghiera fiduciosa in Gesù e nella Madonna. Se noi
abbiamo paura, questa ci toglierà le forze, ci obbligherà a pensare solo alla situazione personale e ci distruggerà. Chi
pensa di essere preso dal feticcio si ammala pensando ad esso, non mangia più,
non vuole guarire, muore di disperazione e di stenti. Al contrario chi non
crede in esso non è soggetto alla paura e vive bene, lascia che gli altri si divertano con i propri
malefici e mette la sua vita nelle mani di chi ha vinto la morte. Ora guardate
bene, Ramiro ha la sua mano nelle mie mani, esiste una continuità fra la sua
persona e la mia persona, io prendo sulla mia persona tutti i malefici che
scendono su Ramiro, niente potrà fare del male a lui o alla sua famiglia. I
malefici afferrano prima la testa poi il resto del corpo. Ramiro,
ascolta bene quanto sto per dire: “ Se qualcuno vorrà farti del male tu
rispondi che è libero di fare ciò che vuole, il suo operato non si ferma sulla
tua persona ma passa alla persona del Padre, L’operatore di malefici risponderà a me e non a te. Quel tizio avrà ciò che merita”.
Dopo la
catechesi l’eletto si rasserena e possiamo procedere alla presa di possesso con grande allegria
dell’assemblea. Questa non sembra per
niente infastidita per l’attesa prolungata dovuta al colloquio, anzi mostra
soddisfazione per la conclusione raggiunta.
Il missionario inizia la celebrazione eucaristica, accompagnato dall’animatore di zona,
dall’animatore parrocchiale e dal nuovo eletto. Il nuovo anziano rivestito delle vesti proprie,
si mostra padrone della cerimonia. Ora anche
Napako può andare avanti spedita con il
responsabile di sua fiducia senza alcun
intralcio per la presenza di Swardi Mulakya e il suo amico.
giovedì 9 novembre 2017
Anche le scimmie piangono...
Anche le scimmie piangono
Nei racconti di un vecchio
missionario ce ne sono alcuni particolarmente significativi che
meritano di essere ricordati. Padre Pio Santo Canova ricorda così gli inizi del
suo ministero nella zona di Lurio.
“Nella zona di Lurio vengo col gruppo missionario per conoscere le terre al fine di fondare una missione. Al mio arrivo tutta la vastissima zona é un’unica foresta interrotta
da ampie savane abitate da molte specie di animali. Vivono indisturbati, i palapala, le gazzelle e
molti tipi di maiali selvatici. Non mancano
i leoni, gli elefanti, le scimmie, i leopardi. Sono
tutti animali che scendono nei piccoli villaggi alla ricerca di cibo. Quando gli
animali non hanno fame o non sono disturbati la gente convive con essi quasi
serenamente. Noi missionari siamo anche
provetti cacciatori perciò la carne non manca mai nella mensa della
missione. Gli animali preferiti sono le gazzelle, i palapala e, in mancanza di
questi si cacciano anche le scimmie, più numerose e più facili da rintracciare.
Appena arrivati sul posto prescelto
per impiantare la missione si costruisce una cappella, un centro sanitario, un
centro di alfabetizzazione per ragazzi e ragazze, le abitazioni del personale missionario e degli
operatori. Per realizzare tutto questo occorre molto tempo. Non ovunque arriva
il fuoristrada per cui il materiale si deve trasportare spesso a piedi e sulla
testa per molti chilometri. In compenso abbiamo
a disposizione tutto il tempo necessario. Sembra che gli anni e i secoli ci
appartengano.
Fiumane di persone si accalcano
nel centro sanitario con ogni forma di malattie. Spesso sono persone con lo
stomaco vuoto da molto tempo. Il centro di alfabetizzazione ospita in modo
permanente cinquanta ragazzi e alcune ragazze, altri arrivano a piedi dai
centri più vicini. Dobbiamo sudare parecchio per aprire la scuola poiché il saper
leggere e scrivere non offre subito da mangiare e i familiari devono
lavorare inutilmente, aspettando i benefici della istruzione. Una particolare avversione
si riscontra per le ragazze, nate per dare un’ abbondante discendenza alla
tribù. Per far questo non occorre saper leggere e scrivere, inoltre nel periodo
dello studio si perde tempo e si acquistano brutte abitudini. In realtà
l’istruzione delle ragazze rallenta lo sviluppo della tribù. Nella situazione
descritta il mio compito é quello di evangelizzare mente e anima, oltre ad
assicurare il cibo quotidiano”. Mentre racconta, padre Canova sembra rivivere
quei momenti., orgoglioso delle sue imprese.
“Una volta mi sono dovuto assentare per una settimana”, continua il
missionario, “ nel frattempo la dispensa si é svuotata. Non c’è
tempo per andare a caccia di gazzelle o
di palapala per assicurare il pranzo. La preoccupazione delle suore addette
alla cucina diventa la mia preoccupazione: cosa dare per
sfamare una marea di gente? Io non ho
ancora imparato a moltiplicare né pane e neppure i pesci. Prego ugualmente il
Signore dei miracoli e come i discepoli presento la mia disponibilità. Si deve trovare qualcosa d’ immediato. Ricordo che non lontano da casa si rifugia
sugli alberi una famiglia di scimmie. Senza perdere tempo, prendo il fucile e
mi dirigo verso l’albero, prima che gli animali vadano altrove. Accoccolata sui rami c’é ancora ben visibile tutto il branco. Sparo
alcuni colpi. Due scimmie cadono per terra, alcune fuggono. La madre, un grosso
esemplare da far paura, scende dalla chioma dell’albero, si mette accanto ad
una delle sue creature senza vita e osserva la sua prole. Istintivamente mi viene da sparare anche a essa ma subito mi trattengo. La preda caduta è sufficiente per quel giorno
e sto a osservare cosa avrebbe fatto la madre.
Con il fucile in mano pronto allo sparo, immobile assisto ad una scena unica,
mai vista prima né dopo. Quella grossa mamma prende fra le braccia una delle
due scimmie morte e solennemente la solleva in alto. I suoi occhi lasciano
scorrere abbondanti lacrime. Con passo
lento si dirige verso la mia postazione
e, senza troppo avvicinarsi, la depose ai miei piedi.
Non é fuggita, non ha potuto
difendere la prole e ora consegna all’uomo crudele il suo terribile dolore. Presenta la sua sconfitta al
vincitore, sconfitto anche lui dall’istinto materno di una scimmia. Poi quella
mamma si allontana velocemente in direzione
delle altre scimmie sopravvissute. Io mi ritrovo solo con il mio fucile in
mano. Osservo la preda. Sono indeciso se portarla a casa o darle degna
sepoltura. Pur nello smarrimento raccolgo gli animali e li consegno ai ragazzi. Per tutto quel giorno non riesco a mangiare,
non parlo con nessuno per non infastidire qualcuno. I ragazzi, ignari di tutto,
mangiano in abbondanza. Quella scena materna è scolpita nella mia mente. Sembra
che le lacrime della madre scimmia bagnino il mio volto e, senza niente asciugare,
passo le mie mani sulle guancie e negli
occhi. Il dolore della madre é diventato il mio dolore. Mai più avrò il
coraggio di cacciare una scimmia.
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