giovedì 21 dicembre 2017

"Grazie Padre!"


Negli anni di permanenza in missione noto che gli avvenimenti speciali  accadono la mattina presto quasi a scongiurare che si   confondano con  i fatti della giornata e perdano il loro prezioso valore. Tutti sanno che   viaggio spesso e mi alzo quando ancora regna il buio della notte. Chi mi vuole incontrare prima della partenza deve camminare di notte e attendere che apra la porta della canonica per salutare il nuovo giorno. Alle cinque smontano le guardie notturne e io sono  da loro per congedarle.  Una mattina  invernale nel  salutare quegli uomini stanchi e intirizziti dal freddo, gli stessi mi avvisano che sotto il mango poco lontano dall’abitazione,  aspettano da  tempo Olgisa e Nziko. Questi sono bagnati non dalla pioggia ma dalla rugiada notturna scesa abbondante per sostituire   l’acqua,  assente da molti mesi. E’ una rugiada benedetta da Dio per tenere sempre verdi i grossi alberi di mango e di cajù. Nel cielo la luna  è   piccola e dà spazio alla moltitudine di stelle che ricamano con mani di fata l’immenso spazio. L’aurora inizia a sostituire il chiarore della luna e delle stelle. Solo un Dio grande e immensamente buono può inventare simili bellezze. Questa mattina  lo splendore e l’immensità del firmamento custodiscono altra bellezza, altra delicatezza che  l’animo umano possiede.   E’ la luce e la delicatezza dell’amore che si fa attenzione e ricompensa.  
Nziko è un giovane sui vent’anni, di media statura, robusto, di bell’aspetto, non eccessivamente nero ma castano scuro. Olgisa Ha un comportamento signorile, non alto, sorridente con lo sguardo rivolto in basso come è consuetudine per le donne makwa, Non interviene nella discussione eccetto quando è sollecitata dal marito. Non interviene per rispetto del marito e del missionario ma anche perché non conosce il portoghese. Dal suo comportamento fa capire che conserva  nel cuore qualcosa di grande mista a una felicità che sprizza da tutti i pori. Sulle spalle porta il solito fagotto  con dentro l’ultima creatura che dorme ignara di tutto e sicura della protezione materna. Il primogenito ha quattro anni e  sta accanto al padre, stringendosi forte alle sue gambe.  La famiglia  viene da Muripa, un villaggio distante venti chilometri dal centro. Hanno camminato per diverse ore perché quelle strade  si percorrono solo a piedi o in bicicletta. Loro non hanno soldi per comprare il mezzo di trasporto e si servono del cavallo di san Francesco. Non possiedono proprio niente. La loro vita è ricca solo di amore, di rispetto, di fedeltà e di attenzione reciproca. Doti veramente rare in  un  ambiente che esce dal turbine della guerra. Non dico che non esistono amore, attenzione,  rispetto, fedeltà ma che non si trovano ovunque. La guerra  ha costruito un ambiente di diffidenza, di odio, di malavita. In quel periodo anche in famiglia ognuno doveva pensare a salvare prima se stesso, poi i congiunti.
I due al mio arrivo si alzano in piedi e mi salutano, lui in portoghese, lei in Makwa col saluto tipico del luogo: “ Moxelelya”, “koxelelya kahiki  nywo”, rispondo io, ( ha riposato bene? Io sì non so lei).  Insieme mi rivolgono il saluto riverenziale riservato alle persone di grande rispetto o a quelle vecchie: “Moscamolo”, “ah- ah”, rispondo io, (come sta?, sto bene). Senza attendere altri discorsi chiedo dove  sono diretti e se hanno molti bagagli. La mia domanda è giustificata perché è norma che la presenza mattutina di persone provenienti dai villaggi lontani è sempre per chiedere passaggi. Alle volte è l’intera famiglia  a   muoversi con fagotti e fagottini che da soli riempiono la macchina. Questa volta mi sono sbagliato, molto sbagliato così da rimanere confuso di tanta delicatezza che i due mi rivolgono. Ricordo di aver riscontrato in precedenza solo qualche altra volta una simile sensibilità.
“Padre, non chiediamo nulla per noi, da qui rientreremo a casa”, dice Nziko con una espressione soddisfatta, quasi contento perché il padre questa volta non ha indovinato il motivo della loro presenza. “Le chiediamo  di ascoltarci   per un solo minuto. Questo è un regalo per lei”. Mentre parla mi porge di lontano una gallina e la signora  alcune uova, e riprende: “La vogliamo ringraziare perché l’anno scorso  ha battezzato il nostro figlio e ha benedetto le nostre nozze.  Attendevamo quel giorno da molto tempo. Il catechista non ci ammetteva mai ai sacramenti perché mancavamo spesso alle lezioni. Lei ci ha  accettato  ugualmente, considerando  la nostra assidua presenza alle celebrazioni e perché abbiamo imparato a casa le preghiere. Le vogliamo dire che adesso conosciamo tutte le preghiere e alle volte recitiamo insieme la corona. La creatura accovacciata sulle spalle di mia moglie  è nata dopo il matrimonio religioso. Noi non  abbiamo dimenticato il regalo che lei ci ha  donato e oggi siamo venuti per ringraziarla: grazie, Padre.
 Potevamo venire prima ma non  avevamo nulla da offrirle e per questo abbiamo preferito attendere il momento giusto, inoltre mia moglie non poteva camminare molto”.  La donna slega il fagotto che porta sulle spalle annodato  sulla pancia. Mi mostra una creatura che dorme beatamente, dolce come la luna che sta per andarsene. Finalmente Olgisa mi guarda nel volto, mostrandomi lo splendore degli occhi incastonati in un viso ampio e lucente.  Come in un coro i due ripetono: “Koshukuru” (grazie). Io ringrazio loro e ricambio il dono con del sale,  una bottiglietta di olio e una busta di riso. Difficilmente il sale si  può comprare, l’olio non si trova affatto nella mensa della gente e il riso è per i giorni di festa.  Ricambiare il dono, secondo le proprie possibilità, è un  gesto che indica  apprezzamento dell’offerta ricevuta.
In un ambiente dove esistono solo doveri, dove per necessità o “per virtù”  la ruberia è di casa, incontrare una simile finezza convalida e incoraggia l’azione missionaria intrapresa e riempie di gioia il cuore.   






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