Nella tradizione makwa è di norma, o almeno lo era
all’epoca dei fatti, che all’inizio delle doglie, si chieda alla
partoriente la paternità della creatura che porta in grembo. Questo è dato dal
fatto che la maternità non può essere messa in discussione, al contrario, non
essendoci per loro riscontri scientifici, si può dubitare della paternità. Al momento opportuno, la suocera della gravida o una incaricata del presunto papà,
chiede alla partoriente il nome del padre del nascituro. Chi presenta la domanda può anche mettere
delle condizioni per tutelare la veridicità della risposta, ad esempio: se la madre dice il falso muoia subito lei o il bambino;
oppure: se il padre del nascituro è il marito della partoriente non ci sia nessun
problema durante il parto; o anche: se il bambino non è del marito della donna
la creatura nasca guasta. Come si può facilmente notare la pratica non rivela
l’ombra della delicatezza. Questa è un’
abitudine che mette in discussione la fiducia e la fedeltà tra i coniugi. Presentata
in questo momento particolare, la domanda non infonde, certamente, serenità nell’ ambiente e ancor meno aiuta la
donna nel dare alla luce la propria
creatura. Soddisfa solo la macabra curiosità della gente, umiliando la donna e il papà nel momento più bello e delicato
della loro vita.
Un’altra pratica comunemente accettata e che facilita
la diffidenza coniugale é il fatto che la donna non nega mai all’uomo la
proposta di un rapporto sessuale. Qualunque sia l’uomo.
Sono pochissime le donne che respingono
sia il semplice rapporto come anche il lasciare marito e figli per seguire
l’ultimo arrivato. La donna diventa una merce qualunque che passa da un uomo
all’altro senza diritti né dignità, con l’unico dovere di soddisfare le
esigenze dell’uomo. Una concezione
profondamente maschilista è radicata nella mentalità makwa. Una simile
mentalità libera l’uomo dalla fedeltà coniugale, dagli impegni familiari, dal
rispetto della propria persona e degrada la dignità femminile. La donna possiede una sola risposta all’infedeltà
coniugale: “Lui mi ha invitato”. L’espressione rivela una mancanza totale della
percezione del proprio valore, e della
dignità femminile pari a quella dell’uomo. Lei è convinta che l’unico
scopo della sua esistenza sia la procreazione. Per capire meglio i rapporti
familiari è bene ricordare che fino a non molti anni orsono i mariti, per
rafforzare l’amicizia o per cortesia verso l’ospite, usavano scambiarsi la moglie fra di loro per una o più volte. Si può intendere quanto sia arduo e delicato
il lavoro missionario per la costruzione del tessuto umano, sociale e
tradizionale. In questo quadro si
colloca l’episodio che segue.
Mwalapwa e Ana sono due giovani che hanno contratto
da poco il matrimonio sacramentale, sono sereni e felici di essere cristiani.
Si sono preparati con tre anni di catechesi e vivono insieme da cinque
anni. Non hanno figli viventi poiché due
sono morti appena nati. Vivono a Keteketi e si sono proposti di essere fedeli
al sacramento ricevuto. Tutta la comunità cristiana li stima. Lui si prepara
per diventare catechista.
Nella comunità di Mwipia vive un insegnante, Janela,
che ha la moglie, quella del sacramento. Forse perché possiede qualche soldo, non
si accontenta della moglie e periodicamente
diventa poligamo. La prima è stabile a casa e guai a chi la tocca, la seconda
dura fino a che lui non si stanca, poi
la restituisce alla famiglia. La
restituzione, notare il termine usato da loro, non implica grandi oneri eccetto
quello di un risarcimento economico per i danni subiti dalla donna. L’insegnante
danaroso non si fa scrupoli, quando adocchia una donna che a lui piace, piomba
nella casa e la porta via con la sola giustificazione che a lui piace. E’
quanto avviene nella casa di Ana. Questa
tenta una iniziale resistenza senza alcun risultato. L’uomo
piccolo di statura, snello, tutto nerbuto da sembrare un atleta, nero come la
pece, le ordina di prendere la biancheria e di seguirlo senza tentennamenti per
evitare il peggio. Così avviene e dopo mezzora A na si ritrova come seconda
moglie di Janela.
Povero Mwalapwa. Al ritorno dai campi trova la casa
vuota, aspetta inutilmente il ritorno della moglie. Forse è andata a Miroge dai
parenti, forse è in chiesa per l’incontro delle donne, oppure è andata al fiume
a lavare i panni e ad attingere l’acqua. Se fosse così rientrerà al tramonto.
Tutto è possibile per chi non conosce. Sono le vicine di casa a dargli la
brutta notizia: “Janela l’ha portata via contro la sua volontà”. Il marito
fedele piange a dirotto, si precipita
nella nuova dimora della moglie, la prega piangendo inginocchiato ai
suoi piedi. Ana sta raccogliendo nuovamente la sua biancheria quando arriva
l’insegnante e minaccia i due di cose strane. Mostra loro un involucro e due
bastoncini e dice: “ Questo è per voi se mi disturbate ancora”. Nell’ involucro
c’è la maledizione del feticcio. Con questo nessuno scherza, nessuno avanza
delle pretese, almeno apertamente,.
Mwalapwa sconfitto e ridotto in cenere rientra a
casa ma non si rassegna a perdere in questo modo la moglie amata e venerata. Il
suo casolare non può essere rovinato proprio dal figlio dell’animatore di zona.
L’uomo non rassegnato si reca dal padre di Janela, presenta il suo dramma e lo
supplica di risolvere il problema, in
qualità di padre dell’usurpatore e come animatore di zona. L’animatore possiede i mezzi per intervenire.
Il padre chiama il figlio il quale non ha niente da dire né vuole difendersi. Davanti al padre Janela
china la testa e ripetutamente dice: ” Ana mi piace e la voglio io”.
Irremovibile il figlio quanto deciso il padre. Non servono i discorsi, non
convincono le parole e il padre passa alle botte. Il disgraziato ne riceve
tante che quasi non può camminare. Col il genitore Janela non si difende, non
si lamenta, è lì come una persona estranea alle botte. Non è possibile lasciare
quella donna, bella e generosa.
Non ottenendo nulla dall’animatore di zona,
Mwalapula si presenta al missionario per avere consigli sul comportamento da
tenere. Il giovane non vuole prendere altra moglie, vuole rispettare il
sacramento ricevuto e rientra a casa deciso ad attendere.
Col tempo tutto si normalizza. L’animatore di zona e
padre di Janela si sente umiliato e sconfitto. Janela si ristabilisce dalle
botte e cura le due mogli. E’ felice, si sente un imperatore capace di tutto.
Mwalapwa si rassegna, prende un’altra donna e attende che rientri la sua amata.
Ana si ritrova incinta e porta in casa
grande gioia. Stranamente anche l’uomo ferito e abbandonato dalla moglie appare
felice, non perché la donna che gli portarono via é in attesa,
ma per cos’altro che nessuno
conosce. Janela si presenta ovunque raggiante come l’uomo forte che nessuno può
sconfigge. E’ l’uomo che conosce e
ottiene ciò che vuole, dovesse anche ripudiare la sua fede.
Arrivano le doglie del parto e ad Ana si rivolge la
domanda consueta, non perché ci sia alcuno che dubiti della paternità
attribuita a Janela ma per rispettare le usanze: “Ana, chi è il padre della
creatura?”. La donna si chiude in un silenzio misterioso, non parla, non si
muove, guarda fissa il suo pancione che racchiude il segreto della sua vita. Le
donne addette al parto la sollecitano più volte finché lei a parlare. Le
chiariscono che la domanda non vuole essere offensiva ma è solo per rispettare
la tradizione. Tutto sanno che il nascituro appartiene a Janela il quale, per
gelosia o per paura, aveva proibito ad Ana di frequentare le case vicine o
ricevere visite di uomini. Quando le donne presenti al parto parlavano lei
diventava sempre più triste e paurosa. Il suo viso si bagna di sudore e di
lacrime. Le donne sono smarrite e pian piano zittiscono.
Quando tutto è silenzio attorno, tremante e rassegnata alla sorte malefica,
Ana risponde: “Non lo so”. Le donne si guardano smarrite in faccia. Un mormorio
si diffonde nella stanza. L’incaricata alle domande chiede: “Che significa non
lo so? Cosa dire a tuo marito? Tu devi
dare una spiegazione a quanto hai detto”. La donna che vede davanti a sé la sua
morte e quella del nascituro non riesce
più a parlare, si chiude nuovamente nel
silenzio e rimira il pancione. Nessuno immagina il dramma che nasconde
quella donna. In fine, sollecitata dalle assistenti e votata ormai alla sorte,
continua: “Non lo so perché durante la mia permanenza qui avevo dei rapporti
non solo con Janela ma veniva anche Mwalapwa e Amisi e alcune volte si sono
presentati Ramiro e Waeka. Ecco perché
non conosco la paternità della creatura”. Un dramma nel dramma senza conosce quale sia il peggiore. Le due
tragedie portano, inevitabilmente alla terza: l’eliminazione della donna con il
bambino. Per grazia di Dio non c’è stata quest’ultima tragedia.
Dopo le prime
sfuriate, Janela decide di restituire all’antico marito la sua donna infedele
con il bambino sano, forte e di bell’aspetto come tutti i bambini che si
affacciano sulla terra. Tuttavia l’uomo forte non può apparire uno sconfitto
davanti alla popolazione e nell’atto di consegna chiede a Mwalapwa il risarcimento
danni: la restituzione dei soldi pagati per avere portato via la donna,
l’affitto della casa per il periodo che
Ana ha dimorato nella sua abitazione, il vitto consumato dalla donna, e quello che eventualmente avevano consumato
gli uomini quando si servivano di Ana, il tutto con gli interessi. Inoltre
Janela chiede il risarcimento per il disonore che la donna ha portato nella sua
famiglia. Potrebbe sembrare strano ma
Janela ottiene tutto questo per scongiurare pericoli maggiori. Questa volta si
è rispettata la vita: quella della madre e quella del bambino. Se negli
intrighi degli adulti e nelle passioni incontrollate degli uomini c’è una vittoria, questa volta è della vita,
la vita nel suo scorrere e nel suo apparire.
La
disgraziata si trova nuovamente
come merce di scarto nelle mani di uomini senza scrupoli, desiderosi di seguire
i propri istinti. Mwalapwa è
disorientato, non sa come fare. Lui è cristiano e non può essere poligamo ma chi mandare via: Ana è la
vera moglie, non lo ha mai disgustato, forse il bambino è suo. La seconda donna
lo ha reso felice per l’ultimo periodo, mai ha ricevuto un rimprovero da lei e già attende il suo bambino. Anche Ana
ha dato un bel bambino che l’uomo può stringere fra le sue braccia. Sì, è vero
che si può dubitare della sua paternità ma il bambino gli rassomiglia molto.
All’uomo piacciono le due donne ma non gli piace la poligamia, è indeciso sul
da farsi, nel frattempo rimandarla dalla mamma Ana. Non trascorre un mese e
Mwalapwa ricompone la sua famiglia,
riceve in casa Ana e il figlio e riconsegna alla famiglia l’ultima
donna. Ana ha capito bene la lezione e
mai più accetta un minimo accenno alla infedeltà coniugale, diventando anche
furiosa se necessario.