martedì 19 settembre 2017

La morte del fratello


Durante e subito dopo la guerra, pur di  salvare una vita, si affrontano sacrifici impensabili in altri momenti. Si viaggia senza contare i chilometri e le ore o calcolare i pericoli. E’ sufficiente  conoscere che in un posto c’ é un ammalato in difficoltà e subito si corre. Il padre Castellari ha abituato così la gente. Quando  sa di un ammalato salta il pranzo e la cena e viaggia per ore e ore pur di incontrarlo. Non sempre trova  chi cerca perché ristabilitosi o passato a vita migliore. In tal caso rientra a casa, contento se l’ammalato é vivo e ha ripreso la sua attività, deluso quando incontra l’ammalato già morto e sepolto. Quando lo permette la luce del sole il defunto si seppellisce il giorno stesso del decesso. Il Padre Castellari non  s’infastidisce mai anche quando non si  capisce se l’avviso corrisponda a verità o  é solo  il desiderio di girare in macchina. La guerra  ha formato il popolo all’incertezza, alla menzogna, a viaggiare in continuazione pur di salvarsi.  
Ai disagi del conflitto si aggiunge il feticcio (una specie di malocchio) operante nell’ambiente come una vera peste. Esso  agisce nel popolo  come una forza occulta  che determina azioni, movimenti e desideri a cui non si può e non si deve opporre resistenza. Esso è sempre la causa di ogni male che, mosso dall’invidia, penetra nella mente, fa vedere tutto negativo e porta inesorabilmente alla morte. Per vincere il feticcio occorre opporgli qualcosa di più forte che pochissimi addetti al mestiere conoscono. In caso contrario la stessa opposizione può aumentare le disgrazie in chi ne è colpito.
Di buon mattino, ancor prima dell’alba, un giovane chiama padre Castellari per soccorrere il fratello gravemente ammalato nel villaggio di Curahama. Il villaggio dista  60 chilometri dal centro, circa tre ore di macchina. Il missionario  ricorda al giovane che altre volte andò in suo soccorso e il fratello non si   lasciò mai aiutare. Forse stanco di viaggiare inutilmente, il vecchio missionario mi prega di sostituirlo.  In separata sede mi avvisa che i parenti sono convinti che l’ammalato sia invaso dai feticci. La curiosità di conoscere e una certa presunzione di sistemare la situazione mi fanno accettare l’incombenza.
Durante il viaggio il giovane è di poche parole. Io rispetto il silenzio, trascorrendo in tal modo venti minuti lunghi come  i giorni e le settimane. Una sua preoccupazione lo costringe a rompere il silenzio. Con voce sommessa  il giovane dice: “Padre, forse mio fratello è morto, forse al nostro arrivo l’hanno interrato, forse non serve il nostro viaggio”. Il suo dubbio è per me realtà. Ho la tentazione di fermare la macchina e farlo scendere. Mi faccio forza e  lo ascolto mentre parla lentamente: “ Padre, io l’ho lasciato ieri sera che respirava a fatica, forse è morto. Il feticcio che lo  possiede  é molto potente, noi non   riusciamo a vincerlo. L’ invidia delle persone supera le nostre possibilità, lui soffre molto”. Io spiego che per il cristiano non esiste il feticcio, si deve solo pregare affinché il Signore superi ogni malattia e resistenza. Spiego la dinamica del feticcio e come si può vincere. Il mio discorso  non rasserena il giovane, al contrario lo rende più nervoso e quasi lo offende. “Padre, interviene lui, io credo alle sue parole ma il feticcio che ha mio fratello non si può vincere, lui è destinato a morire”.
I discorsi si intercalano con lunghi silenzi. Non capisco perché abbia chiamato il missionario se è convinto della sua inutilità. Non riesco a spiegarmi perché debbano essere così rassegnati.
Con simili argomenti arriviamo a destinazione. L’ammalato giace su una stuoia sotto un albero di Cajù. Intorno a lui stanno i parenti in silenzio, aspettando la fine. A distanza, seduti su delle pietre, alcuni amici chiacchierano sommessamente e si alzano all’arrivo del missionario. I parenti rimangono seduti, intensificando il dolore sul loro viso. L’ammalato  è ridotto a pelle e ossa, il respiro è quasi regolare. Capisco che il giovane ha necessità di serenità e di essere incoraggiato. Se riuscisse a mangiare sarebbe un’ottima cura. Uno dei presenti avvisa l’ammalato che  il Padre missionario è accanto a lui. Lo stesso che parla con l’ammalato, anticipando ogni mia eventuale proposta, mi dice che è inutile portarlo all’ospedale, ormai è pieno di maledizioni e morirà subito. L’ammalato apre gli occhi e accenna a un sorriso. E’ un sorriso di saluto al padre arrivato al suo capezzale. Anch’ io sorrido e rispondo con una preghiera e una benedizione. Lontano dall’ammalato, con la speranza di rimuovere la decisione presa, faccio le mie rimostranze con il capo tribù e insisto per non lasciar morire in quel modo un giovane che, forse, non ha raggiunto ancora i vent’anni. Intorno a me si fa silenzio in ascolto delle mie parole poi si solleva un brusio da tutte le parti. Con fare gentile il mio accompagnatore si presta a riaccompagnarmi alla missione e partiamo. Il mio cuore si restringe, non capisco proprio nulla e non trovo alcuna giustificazione per la decisione presa. Non mi sento deluso o sconfitto, sono semplicemente disorientato. Un silenzio che si fa preghiera mi accompagna fino a casa e per i giorni successivi.
Il giovane ammalato muore di fame e di stenti alcuni giorni dopo. Ancora una volta il feticcio  fa da padrone. 
Don Ottavio



Nessun commento: