Durante e subito dopo la guerra, pur di salvare una vita, si affrontano sacrifici impensabili
in altri momenti. Si viaggia senza contare i chilometri e le ore o calcolare i
pericoli. E’ sufficiente conoscere che
in un posto c’ é un ammalato in difficoltà e subito si corre. Il padre
Castellari ha abituato così la gente. Quando
sa di un ammalato salta il pranzo e la cena e viaggia per ore e ore pur di
incontrarlo. Non sempre trova chi cerca
perché ristabilitosi o passato a vita migliore. In tal caso rientra a casa,
contento se l’ammalato é vivo e ha ripreso la sua attività, deluso quando
incontra l’ammalato già morto e sepolto. Quando lo permette la luce del sole il
defunto si seppellisce il giorno stesso del decesso. Il Padre Castellari non s’infastidisce mai anche quando non si capisce se l’avviso corrisponda a verità o é solo
il desiderio di girare in macchina. La guerra ha formato il popolo all’incertezza, alla
menzogna, a viaggiare in continuazione pur di salvarsi.
Ai disagi del conflitto si aggiunge il feticcio (una
specie di malocchio) operante nell’ambiente come una vera peste. Esso agisce nel popolo come una forza occulta che determina azioni, movimenti e desideri a
cui non si può e non si deve opporre resistenza. Esso è sempre la causa di ogni
male che, mosso dall’invidia, penetra nella mente, fa vedere tutto negativo e
porta inesorabilmente alla morte. Per vincere il feticcio occorre opporgli
qualcosa di più forte che pochissimi addetti al mestiere conoscono. In caso
contrario la stessa opposizione può aumentare le disgrazie in chi ne è colpito.
Di buon mattino, ancor prima dell’alba, un giovane
chiama padre Castellari per soccorrere il fratello gravemente ammalato nel
villaggio di Curahama. Il villaggio dista 60 chilometri dal centro, circa tre ore di
macchina. Il missionario ricorda al
giovane che altre volte andò in suo soccorso e il fratello non si lasciò mai aiutare. Forse stanco di viaggiare
inutilmente, il vecchio missionario mi prega di sostituirlo. In separata sede mi avvisa che i parenti sono
convinti che l’ammalato sia invaso dai feticci. La curiosità di conoscere e una
certa presunzione di sistemare la situazione mi fanno accettare l’incombenza.
Durante il viaggio il giovane è di poche parole. Io
rispetto il silenzio, trascorrendo in tal modo venti minuti lunghi come i giorni e le settimane. Una sua preoccupazione
lo costringe a rompere il silenzio. Con voce sommessa il giovane dice: “Padre, forse mio fratello è
morto, forse al nostro arrivo l’hanno interrato, forse non serve il nostro
viaggio”. Il suo dubbio è per me realtà. Ho la tentazione di fermare la
macchina e farlo scendere. Mi faccio forza e
lo ascolto mentre parla lentamente: “ Padre, io l’ho lasciato ieri sera
che respirava a fatica, forse è morto. Il feticcio che lo possiede é molto potente, noi non riusciamo a vincerlo. L’ invidia delle
persone supera le nostre possibilità, lui soffre molto”. Io spiego che per il
cristiano non esiste il feticcio, si deve solo pregare affinché il Signore
superi ogni malattia e resistenza. Spiego la dinamica del feticcio e come si
può vincere. Il mio discorso non rasserena
il giovane, al contrario lo rende più nervoso e quasi lo offende. “Padre,
interviene lui, io credo alle sue parole ma il feticcio che ha mio fratello non
si può vincere, lui è destinato a morire”.
I discorsi si intercalano con lunghi silenzi. Non
capisco perché abbia chiamato il missionario se è convinto della sua inutilità.
Non riesco a spiegarmi perché debbano essere così rassegnati.
Con simili argomenti arriviamo a destinazione.
L’ammalato giace su una stuoia sotto un albero di Cajù. Intorno a lui stanno i
parenti in silenzio, aspettando la fine. A distanza, seduti su delle pietre,
alcuni amici chiacchierano sommessamente e si alzano all’arrivo del
missionario. I parenti rimangono seduti, intensificando il dolore sul loro
viso. L’ammalato è ridotto a pelle e
ossa, il respiro è quasi regolare. Capisco che il giovane ha necessità di
serenità e di essere incoraggiato. Se riuscisse a mangiare sarebbe un’ottima
cura. Uno dei presenti avvisa l’ammalato che il Padre missionario è accanto a lui. Lo
stesso che parla con l’ammalato, anticipando ogni mia eventuale proposta, mi
dice che è inutile portarlo all’ospedale, ormai è pieno di maledizioni e morirà
subito. L’ammalato apre gli occhi e accenna a un sorriso. E’ un sorriso di
saluto al padre arrivato al suo capezzale. Anch’ io sorrido e rispondo con una
preghiera e una benedizione. Lontano dall’ammalato, con la speranza di
rimuovere la decisione presa, faccio le mie rimostranze con il capo tribù e
insisto per non lasciar morire in quel modo un giovane che, forse, non ha
raggiunto ancora i vent’anni. Intorno a me si fa silenzio in ascolto delle mie
parole poi si solleva un brusio da tutte le parti. Con fare gentile il mio
accompagnatore si presta a riaccompagnarmi alla missione e partiamo. Il mio
cuore si restringe, non capisco proprio nulla e non trovo alcuna
giustificazione per la decisione presa. Non mi sento deluso o sconfitto, sono
semplicemente disorientato. Un silenzio che si fa preghiera mi accompagna fino
a casa e per i giorni successivi.
Il giovane ammalato muore di fame e di stenti alcuni
giorni dopo. Ancora una volta il feticcio fa da padrone.
Don Ottavio