Guardando il crocifisso non trovo parole da
esprimere, non ho vocaboli per spiegare. Mi afferra un senso d’ impotenza e di
ammirazione, considerando la vita racchiusa in chi è crocifisso. Non conosco
neppure io il perché non penso alla morte ma alla vita. Mi è davanti un corpo
martoriato, grondante sangue, debole e medito sulla forza vitale che esso esprime. Sofferenza, dolore e
solitudine costringono il crocifisso a una morte lenta e disumana. Allo stesso
tempo infonde in me serenità e pace, non odio o ribellione ma serenità e pace.
Tuttavia una domanda s’impone nel mio animo: Perché
tutto questo? Qual’ è il fine di tanta lotta e contraddizione? La risposta la
trovo solo nell’amore. L’amore alla
vita libera da ogni contraddizione umana, libera da ogni ostacolo che possa
inchiodare il crocifisso alle realtà della terra. Una libertà che porta la
persona alla salvezza più pura in Dio che è amore, donazione, libertà,
salvezza.
Un’altra risposta la trovo nella Bibbia in relazione
al Servo Sofferente, il Servo di
Dio. Egli è colui che è fedele a Dio,
gli ubbidisce e collabora ai suoi disegni. Con la sua obbedienza il Servo deve far
sì che tutto il popolo sia fedele e obbediente al Signore. Pensiamo ai Patriarchi,
a Mosè, a Davide e a quanti avevano un incarico particolare nel popolo eletto.
Servitori di Dio in favore del popolo!
Io sentivo tutto
questo quando incontravo Mariuccia. Una donna crocifissa, nata per la
croce, nata e vissuta per amore, per trasformare la sofferenza in serenità e
donazione. Non ricordo di averla mai conosciuta sana e allo stesso tempo non
ricordo di averla mai incontrata infastidita o indisposta nell’accoglienza. Non
nascondeva le difficoltà, non diminuiva i dolori ma li manifestava come fossero
cose normali, come se non conoscesse un altro modo di vivere. Trovava sempre
una parola per spiegare le difficoltà e scusare i limiti altrui. Non infastidiva neppure il suo spirito critico
proteso a capire più che a danneggiare.
Fin da
fanciulla
ha dovuto lottare con la tubercolosi, allora molto difficile da curare. Una
breve pausa nel godersi la salute poi la preparazione al matrimonio, quindi
nuovamente la malattia che non l’ha mai più lasciata. Ha assaporato la crudeltà di una patologia degenerativa, distruggendo pian
piano nel suo corpo ogni movimento, non certo la sensibilità e la capacità di
donazione del suo supplizio al Signore. Per essere più
conforme al crocifisso, insieme all’artrite deformante si aggiunge l’operazione
a un tumore con le conseguenze che ne derivano. In questa donna tutto concorre
a manifestare in modo sempre più evidente
l’umano e il divino, la fragilità e la potenza, la stoltezza umana e la
sapienza divina. Vera serva sofferente scelta da Dio per una missione
misteriosa e quanto mai fruttuosa di benedizioni divine.
Tutto ha donato al Signore: L’umile e serena accettazione
della sua condizione di sofferente. Ricordo che in un incontro chiedeva a me e
a se stessa: “Perché mi accadono tutte queste cose? Perché Dio permette nella
mia persona tanto strazio? Forse non
conosce la mia debolezza, forse ha
sbagliato persona”. Al contrario era proprio la sua debolezza che, nelle mani del Signore, diventava forza e
coraggio. La sua debolezza dava speranza di vita in chi l’avvicinava, forza
nell’accettare le proprie difficoltà. Ha
offerto al suo Creatore e Salvatore lo
strazio della malattia, il tormento
nel non poter essere di aiuto alla famiglia come avrebbe desiderato. Amava di
un amore incondizionato il marito, i figli, la famiglia: Per loro ha offerto
tutta la sua esistenza. Credo sia questo atteggiamento sacrificale che l’ha
sostenuta nel cammino difficile su questa terra e inserirla senza attesa nella
visione beatifica di Dio. Con una certezza umana ieri nella camera ardente
dell’ospedale di Sassari si ripeteva sommessamente: “Sembra una santa, se lei
non è andata direttamente in paradiso questo non c’è”. La certezza umana non è
dogma di fede ma rivela quella sensibilità che penetra i misteri di Dio alla
quale l’uomo fa bene a porgere attenzione.Noi siamo propensi a cercare i santi
in paradiso, e facciamo bene, ma non possiamo dimenticare che i santi si
costruiscono sulla terra, vivono in mezzo a noi e quando arrivano in cielo sono
già santi. Abituiamoci, quindi, a riconoscere la santità nelle persone che ci
circondano, nelle persone quotidiane.
Un atteggiamento caro a Mariuccia era la preghiera. Una preghiera costante
fatta di formule prima e di offerta poi. “Non mi riesce più a pregare”, diceva negli ultimi anni della sua esistenza terrena,
“spero che Dio accetti la mia sofferenza, mio marito, i miei figli, la mia
famiglia, adesso non ho più nient’altro
da donare”. La sua condizione di sofferente, le gioie e i dispiaceri
diventavano squisita preghiera, la sua stessa persona era ormai una preghiera
vivente in espiazione dei mali dell’umanità.
Era diventata quel seme evangelico che, caduto nella terra dei dolori, della
corruzione, della violenza, dell’odio, dell’indifferenza, delle divisioni, delle
persecuzioni si dissolveva per una messe di salvezza e di pacificazione protesa
verso l’eternità. Voglio dire al marito e ai figli, alla famiglia tutta, alla
comunità di essere orgogliosi di Mariuccia. Come non vi
ha abbandonato in terra vi proteggerà in un abbraccio divino dal cielo, dove si
trova in Dio. In vita era un esempio, in morte un rifugio. Ciao, Mariuccia!
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