sabato 1 luglio 2017

Mariuccia


Guardando il crocifisso non trovo parole da esprimere, non ho vocaboli per spiegare. Mi afferra un senso d’ impotenza e di ammirazione, considerando la vita racchiusa in chi è crocifisso. Non conosco neppure io il perché non penso alla morte ma alla vita. Mi è davanti un corpo martoriato, grondante sangue, debole e medito sulla forza  vitale che esso esprime. Sofferenza, dolore e solitudine costringono il crocifisso a una morte lenta e disumana. Allo stesso tempo infonde in me serenità e pace, non odio o ribellione ma serenità e pace.
Tuttavia una domanda s’impone nel mio animo: Perché tutto questo? Qual’ è il fine di tanta lotta e contraddizione? La risposta la trovo solo nell’amore. L’amore alla vita libera da ogni contraddizione umana, libera da ogni ostacolo che possa inchiodare il crocifisso alle realtà della terra. Una libertà che porta la persona alla salvezza più pura in Dio che è amore, donazione, libertà, salvezza.
Un’altra risposta la trovo nella Bibbia in relazione al Servo Sofferente, il Servo di Dio.  Egli è colui che è fedele a Dio, gli ubbidisce e collabora ai suoi disegni. Con la sua obbedienza il Servo deve far sì che tutto il popolo sia fedele e obbediente al Signore. Pensiamo ai Patriarchi, a Mosè, a Davide e a quanti avevano un incarico particolare nel popolo eletto. Servitori di Dio in favore del popolo!
Io sentivo tutto questo quando incontravo Mariuccia. Una donna crocifissa, nata per la croce, nata e vissuta per amore, per trasformare la sofferenza in serenità e donazione. Non ricordo di averla mai conosciuta sana e allo stesso tempo non ricordo di averla mai incontrata infastidita o indisposta nell’accoglienza. Non nascondeva le difficoltà, non diminuiva i dolori ma li manifestava come fossero cose normali, come se non conoscesse un altro modo di vivere. Trovava sempre una parola per spiegare le difficoltà e scusare i limiti altrui.  Non infastidiva neppure il suo spirito critico proteso a capire più che a danneggiare.
Fin da fanciulla ha dovuto lottare con la tubercolosi, allora molto difficile da curare. Una breve pausa nel godersi la salute poi la preparazione al matrimonio, quindi nuovamente la malattia che non l’ha mai più lasciata.  Ha assaporato la crudeltà di una  patologia degenerativa, distruggendo pian piano nel suo corpo ogni movimento, non certo la sensibilità e la capacità di donazione   del suo supplizio al Signore. Per essere più conforme al crocifisso, insieme all’artrite deformante si aggiunge l’operazione a un tumore con le conseguenze che ne derivano. In questa donna tutto concorre a manifestare in modo sempre più evidente  l’umano e il divino, la fragilità e la potenza, la stoltezza umana e la sapienza divina. Vera serva sofferente scelta da Dio per una missione misteriosa e quanto mai fruttuosa di benedizioni divine.
Tutto ha donato al Signore: L’umile e serena accettazione della sua condizione di sofferente. Ricordo che in un incontro chiedeva a me e a se stessa: “Perché mi accadono tutte queste cose? Perché Dio permette nella mia persona tanto strazio? Forse non conosce la mia debolezza, forse ha sbagliato persona”. Al contrario era proprio la sua debolezza che,  nelle mani del Signore, diventava forza e coraggio. La sua debolezza dava speranza di vita in chi l’avvicinava, forza nell’accettare le proprie difficoltà. Ha offerto al suo Creatore e Salvatore lo strazio della malattia, il tormento nel non poter essere di aiuto alla famiglia come avrebbe desiderato. Amava di un amore incondizionato il marito, i figli, la famiglia: Per loro ha offerto tutta la sua esistenza. Credo sia questo atteggiamento sacrificale che l’ha sostenuta nel cammino difficile su questa terra e inserirla senza attesa nella visione beatifica di Dio. Con una certezza umana ieri nella camera ardente dell’ospedale di Sassari si ripeteva sommessamente: “Sembra una santa, se lei non è andata direttamente in paradiso questo non c’è”. La certezza umana non è dogma di fede ma rivela quella sensibilità che penetra i misteri di Dio alla quale l’uomo fa bene a porgere attenzione.Noi siamo propensi a cercare i santi in paradiso, e facciamo bene, ma non possiamo dimenticare che i santi si costruiscono sulla terra, vivono in mezzo a noi e quando arrivano in cielo sono già santi. Abituiamoci, quindi, a riconoscere la santità nelle persone che ci circondano,  nelle persone quotidiane.  
Un atteggiamento caro a Mariuccia era la preghiera. Una preghiera costante fatta di formule prima e di offerta poi. “Non mi riesce più a pregare”, diceva  negli ultimi anni della sua esistenza terrena, “spero che Dio accetti la mia sofferenza, mio marito, i miei figli, la mia famiglia, adesso non ho più  nient’altro da donare”. La sua condizione di sofferente, le gioie e i dispiaceri diventavano squisita preghiera, la sua stessa persona era ormai una preghiera vivente in espiazione dei mali dell’umanità.
Era diventata quel seme evangelico che, caduto nella terra dei dolori, della corruzione, della violenza, dell’odio, dell’indifferenza, delle divisioni, delle persecuzioni si dissolveva per una messe di salvezza e di pacificazione protesa verso l’eternità. Voglio dire al marito e ai figli, alla famiglia tutta, alla comunità   di essere orgogliosi di Mariuccia. Come non vi ha abbandonato in terra vi proteggerà in un abbraccio divino dal cielo, dove si trova in Dio. In vita era un esempio, in morte un rifugio. Ciao, Mariuccia!


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